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23 Dicembre 2023Paolo Jannacci: «Che risate con mio papà Enzo all’autolavaggio. Ma non mi piaceva la sua vita bohémienne»
di Renato Franco
«Quella volta che con Paolo Rossi percorsero Galleria Vittorio Emanuele in macchina»
Ero molto orgoglioso del fenicio con cui ci parlavamo, fenicio antico però, non moderno. La sua era una lingua più metaforica che reale e io mi divertivo molto; spesso la traducevo per gli altri. Allungami il deambulatore significava passami il seggiolino; quando diceva sposta il mercante di sogni si riferiva al pianoforte; Paolo Rossi lo chiamava Bloster, come l’antifurto dei motorini, forse perché quell’oggetto nascondeva allo stesso tempo la tranquillità della forza e la magia dell’apertura». Paolo Jannacci ricorda così suo padre Enzo, un genio della Milano da non bere, un irregolare che sapeva mescolare ironia e dramma, tragedia e farsa , sempre spinto dal gusto del paradosso. Ne rideva lui («Ditelo se si capisce tutto quello che dico perché significa che sono uscito dal personaggio»), ne ridevano gli altri come Franca Rame («Dario, Dario, corri. C’è l’Enzo che si capisce tutto quello che dice!»).
Enzo Jannacci ammirava Ezio Vendrame, un calciatore che durante una partita decisamente monotona decise di tirare apposta verso la propria porta: traversa piena («la partita era mortifera, volevo dare un brivido ai tifosi che si stavano annoiando», disse a fine gara). Una volta a Bloster chiese se avesse mai percorso Galleria Vittorio Emanuele in macchina. Eh no, rispose Paolo Rossi. Dai tira giù il finestrino, metti fuori un fazzoletto bianco e grida sono un dottore. I suoi consigli diventavano aneddoti: «Devi andare sul palco come fosse una rapina, potrebbe essere l’ultima», «meglio un fiasco trionfale che un successo sobrio». Un genio o un pazzo, del resto, sempre parole sue, «il confine tra una genialata e una puttanata è labile».
Il primo ricordo di suo papà da bambino?
«Il suo abbraccio, forte, pieno di energia, che mi tira su».
I padri di quella generazione non spiccavano per presenza. In più era un artista, quindi assente anche per professione. Che papà è stato?
«In realtà è sempre stato presente. Non si perdeva mai gli appuntamenti “istituzionali”, non si è mai dimenticato delle occasioni importanti: saggi, riunioni dei professori, pagelle… è andato lui a vedere il voto della maturità e ha segnato anche i risultati di tutti i miei compagni su un foglietto. Un bigliettino che tenevo gelosamente nel portafoglio insieme ad altri ricordi, ad altri messaggi. Un anno ero al Festival di Sanremo e mi hanno rubato il portafoglio sul red carpet. Ho perso tutto, maledetti».
L’ironia era di casa. Quanto ridevate?
«Ridevamo tanto, le risate più belle e intime erano all’autolavaggio».
L’autolavaggio? Posto strano dove divertirsi.
«Invece l’autolavaggio è un posto dove uno si può veramente rilassare e costa anche meno dello psicologo. Si andava insieme, si chiacchierava, si impostava la problematica…».
La problematica?
«I problemi da risolvere… Mentre eravamo lì sezionavamo la problematica e ci ridevamo su; e poi ci disperavamo per la risata che ci eravamo fatti perché riconoscevamo gli elementi tragici di quello che ci capitava. Il ridere dei guai ci faceva sopportare le avversità che ci capitavano. Quello all’autolavaggio era un momento chirurgico e analitico, la macchina alla fine era pulita e noi tornavamo a casa contenti. Magari non si risolveva niente ma eravamo più leggeri; era un po’ come fare l’analisi dall’analista, una volta che racconti la problematica inizia già il percorso».
Dario Fo diceva di suo padre che aveva una pazzia straordinaria e intelligente.
«Il loro rapporto era come quello tra maestro e allievo, il piano tra di loro non era mai orizzontale. Mi ricordo che quando il papà mi portava da lui, prima di entrare in casa si raccomandava sempre: devi ascoltare tutto quello che dice, meglio di Dario non c’è nessuno».
Suo padre raccontava: «Gaber mi voleva bene. Dopo anni che ci conoscevamo, un giorno si avvicinò e disse: poi ho capito che sei anche una brava persona».
«Avevano due vite completamente diverse, non si vedevano spesso, però si andavano a trovare per un consiglio, per leggere una cosa che uno dei due aveva scritto e l’altro tirava fuori magari il suggerimento geniale. In quei momenti ho potuto assistere a un rapporto molto fraterno, di quelli che non c’è bisogno di tante parole per spiegare uno stato d’animo. Il grado di complicità traspariva da come stavano insieme, dagli sguardi, dai modi di dire, dai sottintesi».
Altri grandi amici, sul palco e fuori, erano Cochi e Renato: che rapporto aveva con loro?
«Non dimenticherò mai le riunioni creative a cui ho potuto assistere: non sembrava lavoro, ma un flusso di amicizia che portava alla creazione di qualcosa. Volavano letteralmente via».
Quanto è stato complicato essere suo figlio?
«È stato facile e difficile allo stesso tempo, era molto esigente. Mi rimproverava la pigrizia, mi ha insegnato il rispetto per se stessi e per gli altri, guai a sgarrare, l’ho imparato da ragazzino con sfuriate importanti».
Una sfuriata storica?
«Non ricordo il motivo preciso, so che per un mio atteggiamento non abbastanza educato si arrabbiò tantissimo, prese l’auto e scappò via. Non mi ha parlato per due giorni».
E a lei cosa irritava di lui?
«Abbiamo avuto il nostro periodo di contrasto padre e figlio: io non accettavo lui, lui faceva fatica ad accettare me come “nuovo” ragazzino con una sua personalità. Certi suoi atteggiamenti non mi piacevano, il modo poco ordinato di gestire la sua vita, aveva uno stile troppo bohémienne che non mi andava bene. Avevo 16/17 anni, era il classico periodo dell’adolescenza in cui ci si scontra con il papà. Ci siamo fatti gli affari nostri per lunghi periodi, poi ci siamo capiti e abbiamo accettato gli errori e le mancanze dell’altro. Siamo diventati oltre che padre e figlio, anche amici».
Suo padre è stato collettivamente amato e pubblicamente riconosciuto, ma — a differenza di tanti «figli di» — lei sembra non provare il peso di un’ombra per forza ingombrante. È così?
«Sì, è vero. A un certo punto il papà mi ha affidato la sua musica e mi ha passato i suoi insegnamenti teatrali. Siamo andati avanti in simbiosi per tanto tempo, io l’ho supportato e ho condiviso tanto del suo repertorio, della sua musica, del suo modo di essere, che è diventato anche il mio modo di imparare e lavorare. Il passaggio di consegne è stato completo, non c’è stato uno scarto e da parte sua non c’è stata mai nessuna gelosia».
Quando ne ha colto la differenza rispetto ai tanti?
«Fin da quando ero un botolo bambinesco mi sono accorto che il papà aveva qualcosa di speciale perché trasudava questa energia, questa energia strana, a volte ambigua, divertente, magica. E io da bambino ne fui affascinato da questo mondo incantato. Anche con i suoi lati oscuri perché gli artisti, soprattutto i geni, hanno il paradiso ma soprattutto l’inferno».
Se chiude gli occhi qual è la prima cosa che le viene in mente?
«La risata. Quando si entusiasmava per una situazione o una persona la sua risata sottolineava ancora di più quel trasporto».
Cosa le manca?
«Mi manca la sua energia, la sua risata, il suo modo di mettere le mani sul piano… E la voce, una voce che faceva vibrare i muri e le anime; quella voce mi faceva spaventare e mi faceva ridere. Mi mancano i nostri discorsi surreali e non poter più sorridere dei guai con lui che è una delle cose che ci faceva stare meglio in assoluto. Mi mancano anche le sue incazzature quando si metteva a suonare e due minuti dopo che era entrato nel mood dell’ispirazione suonava il telefono. Che incazzature… Venivano giù il paradiso e l’inferno».