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Gli afrodiscendenti europei nel tempo hanno riconosciuto che la propria storia è legata al continente più che alle singole nazioni. La loro presenza è antica, e le tracce nell’arte lo dimostrano Quella veneziana ne condensa la storia meglio di tutte
Nell’Europa-Arlecchino, un posto di sicura preminenza l’ha avuto la presenza nera, quell’afrodiscendenza che per molto tempo nessuno aveva avuto né il tempo né la voglia di battezzare. Dopo l’omicidio di George Floyd, una delle prime conseguenze è stata di dare peso, attraverso proteste (la più emblematica delle quali a Bristol, dove la statua del mercante di schiavi Colston è stata gettata giù dal piedistallo e fatta rotolare verso il fiume), performance o semplici prese di parola, a quella che potremmo definire come identità afroeuropea. Qui occorre prendersi un attimo di respiro e capire la valenza di questa terminologia. Quale gruppo definisce? E quali vocaboli produce? Che senso ha oggi mettere insieme la parola Africa e la parola Europa? Sul calco del termine African American, africani americani o afroamericani, anche le persone di discendenza africana nate e/o cresciute in Europa (tra cui vanno contati anche i migranti di prima generazione che hanno sentito la loro identità comunque mutata) hanno voluto darsi un nome collettivo. Si è andati per tentativi, per abiure, per riflessioni e ripensamenti. Va detto che i nomi usati oggi, accettati dall’accademia, dall’attivismo o dall’arte, in futuro potrebbero a loro volta andare incontro a cambiamenti parziali o radicali.
Sta di fatto che, dopo tentativi legati a singoli stati nazione – non sempre accettati dalle comunità, come nel caso del termine “afroitaliani”, che unisce un continente a un singolo paese –, è stato proprio il termine African Europeans o africani europei, senza trattino, a raccogliere il maggior consenso. Perché definiva un’identità nera differente da quella degli africani americani, un’identità di persone nere europee, o Afropei, come il fortunatissimo titolo del libro di Johny Pitts. La matrice africana rimaneva dunque forte e si sposava con un’identità europea che non veniva indossata passivamente, come nel “giardino” immaginato dalle istituzioni europee, ma attivamente, attraverso la storia e l’analisi di un dilemma sistemico che vedeva proprio nell’Europa la causa delle sofferenze dell’Africa. Europa, quindi, come dispositivo di violenza, ma anche come casa problematica in cui il corpo abitava.
Andava così lentamente formandosi l’idea di essere un crocevia, il luogo dove per secoli si erano combattute le battaglie per la nerezza. Un corpo nero vissuto in modo marginale, stretto, la cui storia stessa era stata cancellata, ma che finalmente stava prendendo consapevolezza di sé. Era quindi di vitale importanza accostare alla parola “africani”/“africane” la parola “europei”/“europee”, perché di fatto erano i termini dell’autodefinizione. Persone nate, cresciute o arrivate e residenti
di lungo corso a Londra come a Roma, a Dublino come a Parigi, a Berlino come a Lisbona, unite da due continenti spesso in conflitto. Inoltre, il termine riassumeva una storia diversa da quella degli africani americani: legata non solo alla schiavitù, presente anche in Europa, seppur con modalità differenti rispetto a quelle della tratta atlantica, ma anche al colonialismo. Ed è questa la storia che andava indagata. Bisognava prendere coscienza di sé non solo in senso generico come persone nere o, peggio, schiacciate dalla storia di comunità nere preminenti come quella africana americana, che era stata un esempio con le sue lotte per i diritti civili, ma come africani europei. Era diventato importante tirare fuori se stessi e le proprie storie. Non è un caso che negli ultimi anni siano usciti in libreria moltissimi volumi su questo tema: dal fortunato romanzo della scrittrice anglo- nigeriana Bernardine Evaristo, Ragazza, Donna, Altro, su cento anni di storia di donne afro-britanniche, in cui si intrecciano vissuti politici, intimi e sociali, al bellissimo volume di Olivette Otele, Africani Europei – Una storia mai raccontata, che attraversa la storia della presenza nera in Europa.
Gioco forza, tutto questo ha fatto in modo che si guardasse al patrimonio artistico europeo come a una cartina di tornasole, quasi contenesse le prove istruttorie da portare in un ipotetico tribunale di una presenza nera reale, tangibile, visibile sul suolo europeo. Ed ecco che persone nere prima invisibilizzate, tanto nelle tele rinascimentali quanto in quelle degli impressionisti, venivano non solo viste, come se fossero uscite allo scoperto per la prima volta, ma anche analizzate e finalmente inserite in una cronologia temporale della nerezza europea. Una rivelazione, insomma. Così i vari Carpaccio e Veronese, ma anche Degas o Manet, hanno fornito lampi di vita vissuta illuminando con un tratto i tanti secoli attraversati nel silenzio.
In questo processo Venezia è una città centrale. Venezia va spogliata di tutto il romanticismo (o, meglio, il romanticume mordi e fuggi) e va vista nella sua storia di città un tempo potente. Come attrice geopolitica che fino alla decadenza settecentesca della Serenissima ha avuto un ruolo fondamentale in quanto potenza mediterranea. Città di commerci, di ricchezze, di intrighi, di tribunali, di scambi con l’Oriente e con il sud del globo. Che già nel ’400 è stata quello che New York o Shanghai sono oggi, ovvero un centro di pluralità, di meticciato, di potere asfissiante e, nonostante tutto, di futuro.
Oggi una persona nera che arriva per la prima volta a Venezia non solo vivrà lo straniamento tipico di chi non ha mai visto la laguna, ma capirà anche che la città è intimamente legata alla nerezza. Venezia, come Livorno, come Trapani, come Napoli, come Messina, come Roma, è infatti connessa a quella che storici quali Salvatore Bono e Giovanna Fiume hanno definito schiavitù mediterranea. Molte persone, non solo nere, provenienti soprattutto dall’Anatolia e dall’Africa del Nord, sono state schiavizzate in Europa, prima in Portogallo e nell’odierna Spagna e poi in Sicilia e in Campania, in Toscana e in Veneto. La schiavitù seguiva le rotte carovaniere e schiavili tracciate da antichi regni africani e dai commercianti arabi; da qui, tramite i portoghesi – che sono stati il motore principale della tratta atlantica, nonché l’anello che ha creato la congiunzione nefasta tra nerezza, merce e schiavitù – il salto da Lisbona all’intera Europa è stato un attimo.
C’è un noto quadro della fine del ’400 di un anonimo pittore fiammingo, oggi custodito nella collezione privata Berardo Collection, dove il quartiere dell’Alfama e la centralissima Chafariz d’El Rey appaiono popolate da persone nere. Se si osserva con attenzione, si noterà che ogni personaggio dipinto corrisponde a una condizione diversa: ci sono le portatrici d’acqua, i domestici, i giullari, chi non obbedisce alla legge e viene scortato fuori dalla scena dai gendarmi, musicisti, intellettuali, e anche un cavaliere nero a cavallo. Ovvero persone in stato di schiavitù e persone che in qualche modo erano state protagoniste di un’ascesa sociale. In fondo, la realtà descritta a Venezia è molto simile a quella di Lisbona: una presenza nera schiavile, ma con possibilità non remote di ascesa sociale. Ci si può quindi trovare davanti a uomini neri rappresentati con tratti brutali, stereotipati, abbruttiti dal loro status, che reggono la tomba di un doge, o a eleganti gondolieri che dominano il palcoscenico di Rialto, fino ad arrivare alla nudità commovente di un uomo, dipinto da Gentile Bellini senza tratti somatici, identificato solo da un panno che gli copre le “vergogne” e dalla sua pelle nera, immortalato nel momento in cui si tuffa (o viene spinto a tuffarsi da una donna alle sue spalle) per recuperare insieme ad altri cittadini una preziosa reliquia caduta accidentalmente in laguna. Un uomo del passato che ci ricorda dolorosamente un uomo del presente, Pateh Sabally, 22 anni, gambiano, che si è suicidato nel 2017 in Canal Grande, sotto il peso di un’Europa non giardino ma fortezza, in cui ai neri africani viene negata la possibilità di un ingresso legale.