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PALERMO - SPECIAL FEE****IL MAFIOSO GIOVANNI BRUSCA SUBITO DOPO LA CATTURA, NEI CORRIDOI DELLA QUESTURA DI PALERMO RITRATTO CON ALLE SPALLE LA FOTO DI GIOVANNI FALCONE E PAOLO BORSELLINO ARCHIVIO STORICO ANNO 1996 Per la presente foto non è stata rilasciata liberatoria. Ai sensi di legge e come già accettato in fase di registrazione sul sito, chi pubblica la foto è tenuto a pixelare tutto ciò che violi il Diritto alla Privacy di soggetti t
L’analisi
di Roberto Saviano
Si è pentito per paura di morire. È stato fondamentale
La libertà di Giovanni Brusca non rappresenta un inciampo della giustizia, un errore burocratico o una falla. Al contrario, Giovanni Brusca è in libertà secondo la legge. È doloroso, ma ci si deve rendere conto che lo Stato, e gli Stati in generale, non solo l’Italia, sono estremamente fragili di fronte al crimine organizzato. Senza collaboratori, non si otterrebbe alcun risultato.
Si può aggiungere che, senza collaboratori, le spese per il contrasto sarebbero quadruple o quintuple, poiché sarebbero richiesti molti più investigatori, intercettazioni e un lavoro considerevolmente maggiore. Il collaboratore di giustizia, quando è efficiente, permette di ammortizzare i costi e circoscrivere gli impegni.
I soprannomi di Brusca — «scanna cristiani» o «u verru» (l’ammazza cristiani o il maiale) — ne descrivono la figura. Nonostante le sue enormi responsabilità, Riina nutriva diffidenza nei suoi confronti, reputandolo debole, fragile e più incline alla vita mondana che al potere, il vero obiettivo dell’uomo d’onore. Quando suo padre, Bernardo Brusca, cessò di essere capo del mandamento di San Giuseppe Jato, non fu Giovanni Brusca a succedergli in tale ruolo (complice il confino cui era stato mandato) ma Balduccio Di Maggio, scelto da Riina.
La collaborazione di giustizia di Giovanni Brusca ha rivelato chiaramente l’evoluzione interna di Cosa nostra. Sebbene sia evidente che nessun collaboratore riveli mai tutto ciò che sa, mantenendo sempre riservata una parte delle proprie informazioni (soprattutto sui capitali), l’apporto di Brusca è stato fondamentale. La sua collaborazione ha condotto a una comprensione molto più nitida delle dinamiche di Cosa nostra. La tripartizione dell’organizzazione è un’interpretazione che emerge chiaramente dalle sue dichiarazioni.
La Cosa nostra di Riina scelse di dichiarare guerra a quella parte dello Stato che la contrastava e a quella che non l’aveva protetta: la strategia fu uccidere i magistrati ed eliminare gli alleati politici considerati traditori. Seguirono le bombe a Milano e a Firenze.
L’obiettivo di Riina era mantenere la sua leadership in un momento cruciale, ovvero il Maxiprocesso, la prima dimostrazione mondiale dell’esistenza articolata e delle pratiche di Cosa nostra. Tuttavia, la sentenza definitiva minò la credibilità di Riina come capo affidabile, poiché non era riuscito a fermarlo.
Prima di allora, i grandi processi si concludevano con condanne individuali, non collettive, e l’esistenza di Cosa nostra non era mai stata provata. A quel punto, Riina si trovò di fronte a due alternative: farsi sostituire o proseguire la guerra. Cosa nostra si divise quindi in tre grandi correnti: la corrente stragista guidata da Riina, la corrente pacifista di Bernardo Provenzano e la corrente attendista di Matteo Messina Denaro.
Uomo d’onore
Il carcere disciplinato e in silenzio non lo avrebbe fatto. Riina lo considerava debole
Queste tre correnti erano sostenute da strategie ben definite. Per Riina, lo Stato aveva deciso di sbarazzarsi di una parte di Cosa nostra ed era pronto a cercare nuovi interlocutori. Riina si oppose a questi, una dinamica simile a quanto accaduto in Campania, dove la politica abbandonò Raffaele Cutolo per allearsi con la Nuova Famiglia. In quegli anni, la stessa situazione si stava verificando in Cosa nostra. Riina impedì questa nuova volontà politica attraverso le stragi, con l’intento di giungere a una trattativa. Le organizzazioni criminali, come Cosa nostra, hanno la capacità di generare un caos totale. Possedendo più uomini, controllo e consenso di qualsiasi gruppo terroristico, possono sconvolgere un Paese in poche ore, non giorni.
Bernardo Provenzano, al contrario, sosteneva una linea pacifista, secondo cui Cosa nostra, e tutte le organizzazioni simili, sono parte integrante dello Stato, non a esso contrapposte. Egli riteneva che i poliziotti fossero «comprabili», i giudici «avvicinabili» e i giornali «influenzabili». Questa era la normalità: sebbene potesse esserci qualche nemico o una minoranza contraria, Stato e mafia coincidevano. Secondo Provenzano, si sarebbe dovuto tornare a questa normalità, considerando i processi un mero ostacolo.
La linea di Matteo Messina Denaro, invece, era quella dell’attesa: sfruttare il potenziale intimidatorio e militare, ma al contempo beneficiare della linea pacifista di Provenzano. Sebbene Messina Denaro non sia mai stato formalmente il sovrano di Cosa nostra, gli ultimi anni della gestione dell’organizzazione, anche quelli con Settimino Mineo probabilmente al vertice, lo hanno visto come il vero capo.
Brusca ha permesso di giungere a queste interpretazioni, sebbene non direttamente attraverso rivelazioni complete. La sua libertà è considerata uno scempio morale in un Paese in cui molti innocenti restano in carcere per mancanza di adeguati strumenti di difesa. La lentezza della giustizia italiana è, infatti, tra le peggiori del mondo occidentale.
In un contesto del genere, la libertà di Brusca risulta disgustosa, soprattutto perché la logica premiale tende a favorire i grandi capi criminali. Questa logica non premia l’affiliato di basso rango. Chi commette reati senza minacciare lo stato di cose sconterà l’intera pena, al massimo ottenendo un patteggiamento per alcuni reati. Al contrario, chi commette reati gravissimi può sedere al tavolo della negoziazione.
Non è possibile sapere se Brusca si sia mai pentito moralmente di ciò che ha fatto, poiché non si può entrare nell’animo di una persona. Tuttavia, dai comportamenti, si evince che chi nasce «uomo d’onore» muore tale. Brusca è diventato collaboratore di giustizia per paura di morire. Dopo il pentimento di Balduccio Di Maggio, lui divenne capo del mandamento di San Giuseppe Jato ma la scelta stragista del gruppo non avrebbe permesso a Brusca di sopravvivere agli occhi di Riina che lo considerava «debole», sarebbe stato sicuramente meglio pensarlo sotto terra. Brusca il carcere d’onore, ossia disciplinato e in silenzio, non lo avrebbe fatto. Sapendolo ha scelto la collaborazione (non è stato l’unico motivo ovviamente) ed è stato gestito dai pm sapientemente in questi anni per ottenere elementi di conoscenza altrimenti irraggiungibili. La sua libertà è dolorosa ma mostra anche che è il prezzo da pagare per ottenere la verità e se consideriamo questa prospettiva, la libertà di Brusca è la prova che le mafie non sono imbattibili e che la strada è ancora lunga, lunghissima.