
Ramones – Blitzkrieg Bop
31 Maggio 2025
Sostituire la cultura con l’intrattenimento, la cittadinanza con il pubblico, la progettazione con l’improvvisazione
31 Maggio 2025
Una riflessione a partire da un’intervista a Simone Verde, pubblicata oggi su Il Foglio, che offre più di uno spunto per interrogarsi sul presente e sul futuro dei nostri musei, e più in generale sul senso della cultura pubblica in Italia.
Ciò che colpisce nell’intervento di Simone Verde, nuovo direttore del complesso degli Uffizi, è il coraggio con cui affronta una questione centrale: cosa deve essere un museo oggi? Non un contenitore, non una vetrina, non una macchina da numeri per il turismo. Piuttosto, un organismo vivo, capace di produrre conoscenza, visione, coscienza critica. Un luogo in cui la storia, l’estetica e la politica culturale si tengono assieme, per parlare al presente e non solo del passato.
Verde non si limita a una critica dell’esistente, né si rifugia nel culto dell’“eccellenza italiana” intesa come eredità immobile. Il suo approccio – maturato tra Parma, Parigi e Abu Dhabi – è quello di chi ha capito che un grande museo non può più permettersi di essere autoreferenziale, ma deve posizionarsi dentro una rete globale di senso, dialogare con altri contesti, accettare le sfide del nostro tempo. Da qui la sua idea di “museologia globale”, che non è una moda, ma un metodo.
Questa visione si traduce in scelte precise: riallestimenti tematici e coerenti, attenzione alla storia delle collezioni, uso critico della tecnologia, nuove forme di mediazione con il pubblico. Il visitatore, anche il meno preparato, deve poter percepire una visione del mondo, cogliere un progetto culturale, non solo contemplare capolavori. Ed è proprio qui che si gioca la vera funzione pubblica del museo: educare senza paternalismo, coinvolgere senza semplificare, restituire profondità.
Trovo particolarmente rilevante l’idea che il museo debba essere un luogo di formazione permanente, non solo per i turisti o per gli studenti in visita, ma per la cittadinanza tutta. In una società che sembra aver smarrito la capacità di riconoscere nella cultura un’infrastruttura civile e non solo un ornamento, i musei possono (e devono) tornare a essere luoghi di socializzazione del sapere, spazi di riflessione collettiva, di costruzione della memoria e della visione. Non è un caso che Verde parli di comunità culturale più che di pubblico: un museo, come una biblioteca o un teatro, non si limita a “fornire servizi”, ma crea legami.
L’altro punto che mi pare centrale è il rifiuto della retorica dell’overtourism come alibi per l’inerzia. Verde non nega i limiti fisici del museo, ma invita a leggere l’afflusso di visitatori come un’opportunità: non numeri da contenere, ma persone da accogliere e orientare, offrendo un’esperienza culturale vera, non confezionata. In questo senso, la diversificazione dell’offerta – con il rilancio di Palazzo Pitti, del Giardino di Boboli, delle collezioni meno note – è una strategia intelligente e sostenibile.
Le parole di Verde pongono una domanda scomoda ma necessaria anche per noi amministratori, studiosi, operatori culturali: vogliamo musei vivi o mausolei del bello? Siamo capaci di concepire la tutela non come conservazione passiva, ma come trasmissione attiva di senso? E siamo disposti ad accettare che questo implichi anche dei rischi, dei cambiamenti, delle rotture?
La sfida è culturale prima ancora che gestionale. E riguarda, in fondo, anche la politica: perché un Paese che considera i suoi musei come fattori accessori dell’industria turistica ha già rinunciato a costruire un’identità contemporanea. Un Paese che li considera invece spazi civili, strumenti di pensiero, può ancora dire qualcosa al mondo.
Credo che il lavoro avviato da Simone Verde agli Uffizi, e il modo in cui lo racconta, ci ricordi con forza una verità semplice: la cultura non è un settore, ma un linguaggio con cui si dà forma al futuro. Se ci limitiamo a conservarla, la perdiamo.
(P.P.)