di Giancarlo De Cataldo
«Ipoliziotti non assomigliano a Sherlock Holmes. Sono per lo più dei bravi borghesi che la domenica vanno a pesca e aspettano la pensione per trasferirsi in campagna e coltivare il proprio giardino. Non parlano mai di intuizione o di fiuto. E a maggior ragione nel loro vocabolario non esiste la parola “genio”».
Già baciato dal successo travolgente delle prime avventure del commissario Maigret, un appena trentenne Georges Simenon accetta l’invito di Xavier Guichard, leggendario capo della polizia giudiziaria, e si mette a studiare da presso le tecniche investigative e il modus operandi dei “ flic”. Ossessionato dal “ fattore umano”, ottiene di accompagnare sul campo qualche brigata operativa. Poiché, quando si tratta di Simenon, non si butta niente ( come nota ironicamente Ena Marchi nell’illuminante nota del volume adelphiano Dietro le quinte della polizia), in quattro e quattr’otto lo scrittore confeziona una serie di articoli in cui si alternano l’anima del narratore e quella del cronista. Fra Simenon, che sino a quel momento aveva raccontato una polizia immaginaria, senza aver mai messo piede alla Tour Pointue, la Torre Puntuta dalla quale si domina Parigi, e i poliziotti, evidentemente interessati a guadagnarsi una stampa favorevole, scocca un’immediata corrispondenza di amorosi sensi.
I poliziotti saranno anche diversi da Maigret, ma qualcosa li accomuna: sono persone che il destino, ha messo a confronto con gli aspetti più discutibili della natura umana. Quegli stessi aspetti che tanto attraggono il giovane scrittore. Simenon aderisce con convinzione al loro sguardo. Contempla i criminali con sostanziale distacco. In mezzo alla tante turpitudini che si affastellano sui tavoli della Buoncostume o in quegli archivi dove si custodiscono segreti scottanti, accanto a celebri serial- killer come Landru, affiorano tratti di ironia e commedia, storie di corna e di raffinati truffatori, di abili borsaioli, di callide servette, di borghesi cocainomani.
Protagonista assoluta: Parigi, la metropoli che brulica di vita e offre il più vasto, eterogeneo, spesso incredibile campionario di tipi umani. Qualche sprazzo di pietà affiora talvolta, ma sono radi lampi. Il senso del reportage è palese: lasciate lavorare in pace i nostri angeli custodi, perché da loro dipende la nostra sicurezza. Una frase su tutte: «Dicevate che vista da Parigi la Tour Pointue fa paura? Ma no! È Parigi che, vista dalla polizia giudiziaria, sembra un luogo spaventoso». Un anno dopo la prima serie di articoli, la morte di Stavisky ( 1934), l’avventuriero dalle oscure protezioni che quarant’anni dopo un meraviglioso Belmondo porterà sul grande schermo, sconvolge il mondo poliziesco e giudiziario francese. Simenon spende poche parole per l’affaire che getterà un pesante discredito sulle istituzioni. Ormai ha acquisito la mentalità poliziesca, e lungi dall’interrogarsi sui rischi della corruzione dei potenti, si lancia in un’appassionata filippica contro le nuove leggi garantiste, ree di limitare i poteri degli sbirri. Addio stanze fumose e confessioni rilasciate dopo giornate di estenuanti interrogatori a base di metodi, diciamo così, “ decisi”, addio “ terzo grado” e addio pure agli schiaffoni che con certi tipacci sono l’unica risorsa. Ora si gioca di fioretto e di velluto, e Simenon si fa uomo d’ordine a tutto tondo: che diavolo può capirne un giudice- damerino educato nelle migliori scuole della mentalità del delinquente di strada? Signori, rendetevene conto: « La libertà individuale va bene, ma non bisogna esagerare. Non bisogna farla diventare libertà garantita per tutti i delinquenti».
Tre anni dopo, nel ’ 37, ormai aureolato di gloria letteraria, Simenon firma una nuova serie di articoli. Ma è come se, strada facendo, si fosse risvegliato dal “ Bercy”: in gergo, la sbronza, perché a Bercy si teneva il mercato del vino. Le considerazioni più o meno socio- politiche cedono il passo al romanziere. Parigi continua a far paura, coi suoi assassini e i e la sua violenza mai doma. Ma all’ideologia si sostituiscono lo sguardo compassionevole sulla miseria e la disperazione del genere umano, la pietà per i suicidi. Accanto ai criminali perfidi e ottusi spuntano i disgraziati, i poveracci, quelli normali che un tragico e imprevedibile scivolone ha trasformato, magari, in assassini.
E Parigi si arricchisce della poetica crudeltà che le sue pagine hanno reso immortale: «La vera Montmartre non è quella dei locali notturni e delle poche centinaia di papponi e di mignotte di cui si parla tanto; è la Montmartre dei vecchietti che non hanno più niente, che si fanno investire dal tram perché non ci vedono bene, o che vengono stroncati dal freddo, o che fingono di avere un mancamento per strada per ottenere un posto all’ospizio e che, quando non ci riescono, finiscono, una mattina, per gettarsi dalla finestra».