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Il primo agosto il leader di Autonomia Operaia compie 90 anni. E rievoca la militanza giovanile nell’Azione Cattolica, l’ammirazione per Moro, Bobbio e la stagione tragica degli Anni di piombo
A ciascuno la sua lettera scarlatta. Per Toni Negri è un numero, 7, aprile 1979. Il suo Moloch, Autonomia Operaia, finiva in gabbia a Padova. Di fronte sarebbero stati a lungo lo Stato e il teorico dell’anti-Stato, ancorché docente di Dottrina dello Stato. Fin quando il pallottoliere giudiziario formò un ulteriore numero, 17, gli anni di carcere inflitti al professore, che ne sconterà 11 e mezzo.
Toni Negri si avvia a compiere novant’anni a Parigi, l’1 agosto, attaccato ad “una sorgente d’ossigeno”. Si è diradato fino a dissolversi, nel suo studio, il fumo delle ultime mai ultime sigarette che fuoriusciva verso il boulevard dove ancora nitide sono le orme hemingwayane, tra la Coupole e la Closerie de Lilas.
Novant’anni, il ricordo che la conforta?
Marx sollecitava i filosofi a trasformare il mondo, non solo a interpretarlo. Quale il suo contributo in tal senso?
«L’analisi del movimento operaio, la costruzione di un nuovo soggetto che impronterà gli anni Sessanta-Settanta. Dai Quaderni rossi all’attività politica, fino al 7 aprile. Vent’anni per modellare una prospettiva militante».
Non crede che sia fallita? Se a segnare l’Italia sarà il ventennio berlusconiano?
«È fallita anche la parte più decente della borghesia, che si è lasciata ammaliare e fagocitare dal Cavaliere o Caimano che dir si voglia».
E il Pci? Berlinguer non è mai stato un suo “compagno” ideale…
«Il Pci non ha capito la trasformazione del capitalismo. Si è adeguato a un modello di sviluppo industriale fordista, mai avventurandosi nel post-fordismo e mai andando al di là del keynesismo».
Le è successo di non nascondere la stima per Moro…
«Il quale aveva capito due cose: il Pci era in crisi, giustamente in crisi, una condizione che andava trasformata in fatto politico. Purtroppo sarà il Caf, Andreotti & C., a realizzare l’impresa in termini reazionari».
Torniamo al comunismo. Di fronte alla débâcle del comunismo storico, Norberto Bobbio osserverà: «Forse la redenzione umana non è di questo mondo».
«Lo considero un momento di sconforto di Bobbio. Era kantiano. L’illuminismo ci insegna che la grandezza dell’uomo moderno in ciò consiste: non avere ostacoli, sapere andare al di là di ogni ostacolo».
Che cosa la divideva da Bobbio, che contribuì a farle avere la cattedra di Dottrina dello Stato?
«Affermava che il comunismo non è caratterizzato da una dottrina dello Stato, è pura violenza politica. Secondo me, invece, lo Stato sussiste, non come sovranità assoluta, ma come spazio dove lottano forze diverse».
Einaudi non esiterebbe a parlare di Stato liberale, liberale l’aggettivo declinato in modo rivoluzionario da Gobetti…
«Perché no?».
È nota la sua formazione cattolica, nella Padova degli anni Cinquanta. Le capitò di votare Dc?
«No, mai. Quando militavo nell’Azione Cattolica ancora non avevo diritto di voto. La prima volta scelsi il Pci».
Quale l’impronta cattolica degli anni di piombo?
«Perché cattolica? Direi cristiana. Ovvero amare i più poveri, sceglierli. Siamo giunti a papa Francesco che invita al Sinodo il disobbediente Casarini».
Evangelicamente amare… Ma allora gli omicidi erano quotidiani…
«Ma chi cominciò? Le stragi non erano forse di Stato? Io, comunque, non ho mai ucciso».
E gli ex terroristi italiani che la Francia ha deciso di non estradare e la giustizia nei confronti delle vittime?
«Sono trascorsi più di quarant’anni… In qualsiasi altro Paese avrebbero goduto dell’amnistia. Qualcuno ricorderà l’amnistia Togliatti, la cancellazione dei crimini fascisti».
La Francia brucia, arriverà Marine Le Pen all’Eliseo?
«Se si votasse oggi, al 70 per cento».
E la sinistra?
«O sarà nuova o non sarà. Qualche segnale di incoraggiante lo scorgo. I Gilet Gialli che hanno archiviato lo sciopero classico, inventando lo sciopero sociale. Senza di loro non ci sarebbe stata la rivolta delle pensioni».
Oltre che la sinistra, bisognerebbe fare l’Europa…
«Io sono sempre stato europeista. Fra dieci anni, terminata la guerra in Ucraina, sarà feudo dell’industria e del potere americano. Mentre la Russia sarà sotto l’ombrello cinese».
Come legge il fenomeno Meloni?
«Post-fascismo non vuol dire niente. Si tratta di una svolta autoritaria, molto liberale, incastrata nella continuità delle scelte reazionarie del ceto politico italiano».
Lei ha tre maestri. Machiavelli…
«Insegna che la lotta di classe sta al centro di ogni concezione del potere e che lo Stato è il prodotto di questa lotta sempre aperta».
Spinoza…
«La migliore vita sociale è la vita condotta collettivamente, la vita comune, la moltitudine dovrebbe organizzarsi liberamente, come società amorevole».
Marx…
«Mescola la lotta di classe con la tendenza a edificare un comune materiale e spirituale, politico ed economico».
E Gramsci?
«Auspico che lo si legga, sottraendolo alle macerie, ossia al togliattismo. È uno scrittore rivoluzionario, non il teorico del compromesso storico».
Sua figlia le ha mosso la critica di aver sacrificato la vita all’ideologia…
«I miei figli hanno sofferto molto della repressione ed è giusto che abbiano una certa collera nei miei confronti. Ma fare un film su quella vicenda, come ora sta facendo Anna, è trasformare la sofferenza in una proposta. Stiamo ricostruendo».
Novant’anni. Bobbio affermava che avanzando negli anni gli affetti contano più dei concetti…
«Riecco Bobbio. Riecco aprirsi il dissenso. Io ritengo, con Foucault, che affetti e concetti siano maledettamente intrecciati».
Se ne è andato Kundera… Libération titola: “L’infinie liberté des lettres”. La letteratura come via alla libertà?
«Gli esempi non mancano. Dal nostro Risorgimento, da Alessandro Manzoni, a Victor Hugo per la Francia, a Tolstoj, al Grossman di Vita e destino».
Per lei è prioritaria la libertà o la giustizia?
«Bobbio distingueva, la giustizia contrassegna la sinistra, la libertà la destra. No, sono indivisibili, ora e sempre: giustizia e libertà».