A palazzo Bachelet l’aria si taglia col coltello: l’ufficio di presidenza del Csm è diviso, così come lo è anche il plenum in una geometria che – sulle pratiche più politiche – è diventata una resa dei conti tra consiglieri laici di centrodestra e il blocco dei togati, compresi i conservatori di Magistratura indipendente che nei mesi scorsi erano stati accusati di collateralismo con i partiti di governo. Il più solo di tutti, però, appare essere il vicepresidente Fabio Pinelli, nei cui confronti è irrigidito anche presidente della Repubblica, che del Csm è presidente.

L’ultimo scontro in ordine di tempo è stato la seduta straordinaria per approvare la circolare sul funzionamento delle procure. Il tema è subito apparso nodale, tanto che l’ordine del giorno è stato firmato direttamente da Sergio Mattarella e la seduta (iniziata la settimana scorsa e conclusasi con il voto mercoledì) si è aperta con la lettura della lettera del presidente che definiva «delicati» i temi e sottolineava la necessità di «garantire la funzionalità» degli uffici.

Alla fine di una lunga procedura di ascolto di oltre duecento magistrati, la Settima commissione ha proposto una circolare che ha riscritto le norme di organizzazione degli uffici, in modo da adeguarle alla riforma Cartabia. Il punto chiave: il superamento della contrapposizione tra procuratore capo come vertice insindacabile dell’ufficio e i sostituti, con l’introduzione di una gestione aperta, con riunioni organizzative. Con però un non detto politico, che si è palesato nel dibattito in plenum: la riforma della separazione delle carriere al vaglio del parlamento, che questa circolare contraddirebbe nel suo impianto, che richiama all’unità del lavoro requirente e giudicante.

Molti erano gli equilibri in campo: il “cappello” istituzionale del Quirinale, che con la sua lettera dava l’assenso alla circolare; la contrapposizione sempre più netta tra laici e togati. Il risultato finale è stato il sì a maggioranza, con i no dei laici di centrodestra e le astensioni dei laici Michele Papa in quota M5s, Ernesto Carbone di Italia viva e dello stesso Pinelli. Il quale ha fatto detonare questo amalgama instabile con un intervento che lo ha allontanato dal suo ufficio di presidenza (che ha votato a favore della delibera), ha fatto infuriare i togati, spiazzato i laici della sua stessa area politica e lasciato perplesso il Quirinale.

Pinelli, infatti, è intervenuto in dichiarazione di voto con un intervento fiume di trenta minuti alla fine del dibattito, e dunque senza possibilità di contraddittorio, e ha smontato pezzo per pezzo la circolare. «La fase delle indagini preliminari è ormai centrale nel nostro processo penale. È vero che ci sarà un giudice, ma arriverà quando il profilo reputazionale e personale dell’indagato sarà completamente compromesso. Il giudice a Berlino arriva quando ormai le vite sono distrutte», ha detto, aggiungendo che «il controllo del giudice nella fase dell’udienza preliminare è stato uno dei fallimenti del nostro codice».

La mossa più inaspettata, poi, è stata quella di citare nel suo intervento un messaggio dell’ex capo dello stato Giorgio Napolitano del 2014, in cui diceva che «le garanzie di autonomia e indipendenza del pm riguardano l’ufficio nel suo complesso e non il singolo magistrato» e, sempre citando l’ex presidente, ha invitato il Consiglio a evitare «di assumere ruoli impropri, dilatando a dismisura i suoi spazi di intervento con eccessi regolativi». Infine, ha concluso ipotizzando che uno degli articoli della circolare «sembra incoraggiare interpretazioni contrarie al senso costituzionale».

LE REAZIONI

Il richiamo alle parole di Napolitano su un tema come l’indipendenza della magistratura su cui spesso si sofferma anche l’attuale presidente Mattarella e il riferimento a un Csm esondante le sue funzioni non sono passati inosservati al Colle, che sarebbe stato allertato anche dalla componente togata in Consiglio. Tuttavia, la scelta è quella di non commentare, «se si vuole conoscere l’opinione del presidente, la si trova nella sua lettera al Consiglio», dicono fonti vicine al Quirinale.

Dentro il Consiglio, invece, si racconta di più di qualche voce alzata nei corridoi di palazzo Bachelet. Tanto che alla fine della seduta i 20 togati più il laico del Pd, Roberto Romboli, hanno firmato un durissimo comunicato di scomunica a Pinelli, in cui viene espresso «il nostro fermo dissenso rispetto al metodo e al contenuto di dichiarazioni che si sono di fatto risolte in un atto di delegittimazione del ruolo del pubblico ministero», una rappresentazione «ancora più grave perché offerta da chi riveste il ruolo di vicepresidente».

Se di sfiducia formale non si può parlare, quella arrivata dai togati suona come una sfiducia politica nei confronti di Pinelli, da cui anche i laici di centrodestra sono rimasti spiazzati. «Nulla di quanto ha detto è stato condiviso né concordato con noi», dice una fonte interna, che sottolinea la portata del rischio che il vicepresidente si è assunto: «Sparando così ad alzo zero, avrà contro tutte le procure d’Italia».

Del resto, i due interventi dei laici di centrodestra, quelli di Felice Giuffrè in quota FdI e di Claudia Eccher della Lega, si erano limitati a criticare gli aspetti tecnici della delibera, senza entrare in giudizi di merito. Tuttavia tra i laici c’è anche chi difende il vicepresidente, spiegando che «ha fatto un intervento da avvocato ed è suo diritto intervenire, tanto più che si è astenuto. L’errore è stato farlo nelle dichiarazioni di voto, impedendo repliche»; quanto al richiamo a Napolitano, «sarebbe stato sgarbato citare l’attuale presidente».

Tra i togati, invece, la definizione diffusa è quella di una uscita «improvvida e sgrammaticata», che ha imposto una forte presa di posizione di sfiducia della sua gestione del plenum. In questo clima, a breve, arriverà la riforma della separazione delle carriere. E le crepe rischiano di diventare voragini.