Innanzitutto solidarietà completa e incondizionata alle autorità comunali aggredite o vittime, come il sindaco di L’Haÿ-Les-Roses Vincent Jeanbrun e i suoi familiari, di un tentato omicidio. Condoglianze per Dorian Damelincourt, caporalmaggiore dei pompieri morto in un intervento a Saint-Denis, e solidarietà, senza riserve, agli altri 45 giovani, poliziotti o gendarmi, rimasti più o meno gravemente feriti mentre tentavano di proteggere i beni pubblici e privati delle città. Simpatia di principio per la vecchietta terrorizzata che non osa più uscire di casa, per il padrone del negozio di tabacchi che trova, il mattino dopo una notte di rivolta, il lavoro di una vita ridotto a nulla, per le mamme che vedono l’asilo del loro bambino bruciato, per i cittadini che assistono al saccheggio dei servizi pubblici nel loro quartiere.
Innanzitutto sì, lo sgomento di fronte alla vandalizzazione, a Nanterre, del monumento ai martiri della deportazione e della resistenza, e su un altro edificio, più lontano, questa scritta: “Banda di cagne, vi faremo una shoah”. L’inquietudine di fronte alle dichiarazioni, passate quasi inosservate, di esponenti algerini, iraniani o russi che versano lacrime di coccodrillo sulle vittime delle “violenze della polizia”, attizzando il fuoco. Disprezzo, di conseguenza, per gli esponenti politici francesi che si ringalluzziscono di fronte agli incendi, paragonando il saccheggio di un minimarket alla presa della Bastiglia, e quando si chiede loro di lanciare appelli alla calma sanno soltanto ripetere “la polizia uccide… la polizia uccide…”. E desolazione, infine, di fronte a quella che è diventata la tradizione delle rivolte operaie e popolari, queste sommosse senza progetto, questo modo di dire «lasciateci spaccare tutto in pace, non vogliamo nuovi diritti, ma zone di non diritto…».
Bisogna cominciare da qui. Perché, per quanto la morte del giovane Nahel, ammazzato a bruciapelo da un poliziotto oggi in carcere, sia mostruosamente ingiustificabile, non c’è nulla che possa giustificare questa “follia furiosa” che, come diceva Hannah Arendt, si avvia a diventare un “incubo per tutti”. Ma non basta. E bisogna resistere anche all’altro vento di follia che viene da un’estrema destra che fatica a dissimulare il suo desiderio nascosto di questa “guerra civile” di cui agita lo spettro.
Bisogna, a tale scopo, e senza relativizzare la gravità di quanto sta succedendo, ricordare che la Francia non è la prima grande democrazia ad affrontare un dramma di questo genere. Bisognerà rinfrescare la memoria di quelli che riescono a replicare soltanto con i loro miserabili “chiusura delle frontiere” e “immigrazione zero”: senza risalire alle rivolte fiscali del secolo scorso, che dire delle recenti manifestazioni dei gilet gialli e poi degli oppositori alla riforma delle pensioni? Non hanno conosciuto pure quelle la loro brava quota di furore, incendi, lanci di pietre contro i municipi, minacce contro i politici? E gli immigrati, o i figli di immigrati, non avevano forse una forte presenza in queste manifestazioni?
Bisognerà, come per gli attentati islamisti, rifiutare la logica terrificante di un amalgama che è, anche in questo caso, completamente falso: ingiustizia… imbecillità che mette sullo stesso piano le squadre di criminali e le loro vittime, che fino a nuovo ordine, e in gran maggioranza, sono gli abitanti degli stessi quartieri… e che è il modo migliore di mettere le persone le une contro le altre e gettare i semi del caos futuro.
E poi bisognerà, una volta tornata la calma e bloccata la spirale di emulazione, sperare in uno slancio alla Clémenceau che non potrà essere opera del solo Emmanuel Macron e la cui iniziativa, per prendere corpo, dovrà venire da tutti.
Non che la Repubblica non abbia “fatto niente” negli ultimi quarant’anni, come si sente dire spesso, per riprendere il controllo dei suoi territori perduti. Ma fare di più, molto di più, contribuire a riallacciare un dialogo fra i giovani e la polizia, cercare di porre finalmente il problema della disoccupazione di massa nei quartieri di case popolari, insomma ricucire il legame sociale lì dove si è rotto e impedire che le nostre banlieue continuino a essere questi luoghi del bando, questi ghetti, questa parte maledetta delle società nata tanto dalla volontà delle bande criminali quanto dall’incuria delle autorità: questa, se si vuole impedire che il deserto cresca, che i trafficanti di infelicità mettano radici e che i due populismi prendano il sopravvento, è la priorità degli anni a venire.
(Traduzione di Fabio Galimberti)