Dieci anni or sono, proprio in questo scorcio d’anno, Edward Snowden consegnava alla stampa le prove che l’Agenzia di sicurezza nazionale Usa e l’omologa britannica usavano (e, pensiamo, di certo ancora usino) sorvegliare ogni Paese analizzandone le telefonate, le mail, le ricerche e qualsiasi post che sia introdotto in rete.

Un salto di qualità ed estensione rispetto agli spioni con le cuffie di quando si comunicava in analogico, permesso dalla sostituzione di centrali telefoniche elettromeccaniche con server digitali esplorati da software-robot che continui e instancabili metabolizzano gli infiniti dati rastrellati, ne traggono nomi, cognomi, testi, suoni, immagini e, quello che più conta, “incroci” fra le imprese e le persone.

Di conseguenza noi, gli spiati, viviamo inconsapevoli d’essere, nelle nostre versioni digitali, giornalmente, ristretti nelle sale d’interrogatorio e indotti a confessare fatti, vizi e nostre tentazioni. A beneficio di un eventuale arresto da parte di agenti in carne e ossa già in agguato nel futuro.

In Internet, in sostanza, non siamo ancora giunti a quel 1215 in cui re Giovanni d’Inghilterra fu costretto dai baroni, spade in mano, a garantire l’habeas corpus e porre fine agli arresti e alle condanne decise, senza formali procedimenti giudiziari, ad arbitrio del sovrano. Snowden – per anni spia informatica lui stesso – col disvelamento di questa situazione s’è lavato la coscienza (ed è corso in Russia per sfuggire agli ex datori di lavoro). Nel medesimo istante Internet ha perso l’innocenza.

Nel decennale dell’evento sappiamo che tanto rumore non ha prodotto cambiamenti e che le spie continuano a spiare, come se lo spiare fosse un atto di natura. Per la disperazione di chi prende sul serio leggi e vincoli morali e per la vergogna di una politica inetta, se non complice, a fronte della digitale tirannia.

Eppure è possibile cambiare, a patto d’accantonare le invettive e prendere le misure alle cose come stanno, a partire essenzialmente da due constatazioni: che l’abuso non è deviazione, ma alter ego del potere; che l’impero americano è tutt’uno col potere cognitivo e per questo ne abusa a più non posso.

L’ABUSO È L’ALTER EGO DEL POTERE

Il nesso fra potere e abuso nasce dalla circostanza che qualsiasi potere – di stato, d’impresa di quartiere – sborda e s’allarga nell’abuso non per istinto criminale, ma per autoconservarsi avvistando e troncando le dinamiche contrarie.

Ma solo fino al punto in cui tocca lo spazio di un altro potere capace di resistergli. Tanto che le costituzioni liberali hanno introdotto la “divisione dei poteri” fra governo, legislatori e magistrati, contando, per così dire, sul contrappeso degli abusi fra poteri come tutela per chi paga le tasse e tira la carretta.

Ragionando per analogia, si tratta dunque di scoprire quale sia nel campo della comunicazione digitale il modo di introdurvi una dialettica strutturale simile a quella adottata per i poteri dello Stato.

POTERE IMPERIALE E COGNITIVO

Il potere imperiale s’è fuso col Potere Cognitivo da quando la conoscibilità di quel che accade è frutto di pedinamento digitale e, nel contempo, il mondo della rete s’è concentrato nei monopoli della Silicon Valley sorti nell’intreccio con l’esercito, le agenzie di sicurezza e la finanza dello stato guida d’Occidente. E questo mette in chiaro che non puoi toccare il lato aziendale del problema dell’abuso, ovvero gli algoritmi e il modello di business dei monopoli americani, senza che gli equilibri nell’impero d’Occidente non vengano anch’essi posti esplicitamente in discussione.

“DOMICILIAZIONE SOVRANA” DEI DATI D’UTENTE

A fronte di questi dati di fatto formidabili esiste, per quanto ne capiamo, una luce in fondo al tunnel che si chiama domiciliazione dei dati d’utente, semplice da spiegare e adatta a mobilitare forze più ampie di quelle che disturba e invero molto semplice da spiegare. Tutto consiste nello spostare i dati degli utenti rastrellati dalle piattaforme grandi (Google, Facebook, Microsoft, Apple, Amazon), medie e piccole dai loro server in “scrigni informatici d’utente” a cui solo questo possa concedere l’accesso.

Quest’idea di Tim Barners Lee, l’inventore del web e non l’ultimo dei coscritti della rete, potrebbe sembrare volta solo al rafforzamento della privacy, invece è in grado di innescare la reazione a catena capace di produrre assetti del tutto diversi rispetto a quelli attuali della rete.

Basti porre mente al fatto che gli utenti, trasformati in “proprietari” dei dati personali generati cercando, chattando, inviando posta e interagendo con i videogiochi, potrebbero di quei piccoli patrimoni fare commercio totale o parziale ponendoli a disposizione della pubblicità mirata di piattaforme nuove, europee in particolare, oggi escluse dalla pacchia (400 miliardi all’anno, o giù di lì), perché i dati le imprese dominanti li hanno e se li tengono, mentre i potenziali concorrenti partono da zero.

In più, a ogni accenno di magagna, gli utenti potrebbero ritirare l’accesso ai propri scrigni, come di certo sarebbe accaduto se al tempo di Snowden un simile sistema fosse già esistito.

LE NORME NECESSARIE GIÀ CI SONO

Il bello è che sul piano delle norme la questione è già decisa perché la carta fondamentale della Ue rigetta l’idea che giurisdizioni esterne possano requisire i dati europei fornendo alle proprie imprese un ingiusto vantaggio nei confronti delle imprese europee.

Così ha sentenziato l’Alta corte varie volte silurando i compromessi pasticciati che la commissione, per incompetenza o per timore, ha aggeggiato negli anni per consentire alle Big Tech Usa di tenersi i dati degli utenti nei propri server sul territorio americano e dunque a disposizione dei poteri federali (la motivazione delle successive Commissioni Ue essendo in sostanza che gli Usa, palesemente democratici, mai avrebbero abusato del possesso dei nostri dati in loro mani).

In più, è dal 2017 che il Gdpr, conosciuto come Regolamento europeo in materia di privacy, sancisce che ogni utente sia proprietario esclusivo dei dati che a qualsiasi titolo genera in qualsiasi piattaforma.

Quindi le norme già dicono che: A) i dati degli utenti debbono essere conservati in server installati in Europa e soggetti alle giurisdizioni della UE; B che il proprietario dei dati è esattamente l’utente a cui si riferiscono.

LA SFIDA DELL’ENFORCEMENT NORMATIVO

Quella che manca è la prova dell’“enforcement”, ovvero la messa in pratica delle norme, con le cattive o con le buone. Ma qui si tocca, evidentemente, la questione dei rapporti fra le province europee e la capitale dell’Impero nel riequilibrio della forza cognitiva fra le due sponde dell’Atlantico.

La Cina, per la cronaca, il problema della sovranità giurisdizionale l’ha risolto già da tempo canalizzando i dati in server locali. Quanto alla sovranità dell’utente lì, a quanto pare, può aspettare, non trattandosi di stato liberale.

Ma gli Usa sono invece uno Stato liberale dove non manca affatto a livello popolare la sensibilità avversa agli eccessi di potere. Per cui la vertenza verso gli Usa da parte della Ue avrebbe l’occasione di diventare una questione dentro gli Usa e così fare, senza sconquassare l’alleanza, molta strada verso il temperamento, a fatti e non a chiacchiere, del Grande Fratello Digitale a cinque dita: quelle dei grandi monopoli.

In sostanza dagli Usa abbiamo appreso che l’informatica si è sviluppata dietro la spinta, nell’ordine, di ansie militari (all’origine di Internet e dell’Intelligenza artificiale), potenza finanziaria, ricerca applicata, servizi di massa, economie di scala, controllo del patrimonio dati, utenza espropriata dei dati che produce. L’Europa arriva dopo e per recuperare il tempo perso può invertire la sequenza poggiando il fucile sulla spalla dell’utenza e da lì risalire ai propri interessi sociali, finanziari e militari.