Come interpretare le mosse di Trump in questi primi mesi dalla sua elezione? Fino ad ora, i politici e i commentatori si sono divisi in due campi: i «pompieri» e gli «allarmisti». I primi sostengono che Trump ha in mente una strategia negoziale aggressiva, con il solo scopo di ottenere qualche contropartita per accontentare gli elettori: un ribilanciamento pilotato degli squilibri commerciali, azioni concrete da parte dei Paesi confinanti per limitare il traffico di droga e l’immigrazione o, infine, qualche garanzia dei regolatori europei a favore delle imprese hi-tech. Secondo gli allarmisti, invece, Trump ha un’agenda politica ed economica che punta a destrutturare il sistema di alleanze che ha sorretto per settant’anni il sistema economico-politico mondiale. Le azioni di Trump di questi ultimi giorni sembrano confermare le aspettative degli allarmisti e smentire i pompieri. Questo significa che non si può più attendere e vedere. Occorre mettersi al lavoro per rinsaldare la solidarietà europea e accelerare i progetti di integrazione.
Domani scade la sospensione temporanea dei dazi del 25% sulle importazioni da Canada e Messico (un volume pari a circa 900 miliardi di dollari) e del 10% sulle importazioni dalla Cina (in aggiunta al 10% già varato un mese fa). I dazi del 25% sulle importazioni dall’Ue sono annunciati e ci colpiranno tra breve, a meno di improbabili ripensamenti. Sono colpiti soprattutto i settori dell’auto, l’acciaio, l’alluminio, l’alimentare e i prodotti farmaceutici. Gli esperti fanno fatica a capire quali vantaggi concreti potrebbe ricavare l’economia americana da queste misure. Gli aumenti annunciati porterebbero le tariffe doganali al livello medio raggiunto nel 1939, l’anno in cui è scoppiata la seconda guerra mondiale. Secondo la Tax Foundation (un organismo indipendente), questa politica ridurrà il reddito netto degli americani dell’1,7%, in assenza di ritorsioni da parte dei Paesi colpiti. Se Canada, Messico Cina ed Europa risponderanno con altre tariffe, i danni economici saranno ben maggiori e ricadranno su tutti i Paesi coinvolti. Le tariffe commerciali pagate dalle imprese importatrici si trasformano in maggiori costi per i consumatori e per le imprese che utilizzano i prodotti importati (beni primari e prodotti semilavorati). Per questo motivo l’inflazione in Usa è destinata ad aumentare (così come è avvenuto in parte per gli aumenti tariffari già attuati dal 2018), mentre il disavanzo commerciale potrebbe rimanere invariato per effetto di una rivalutazione del dollaro.
Queste considerazioni fanno pensare che l’obiettivo di Trump non sia la riduzione del disavanzo commerciale e la rivitalizzazione dell’industria nazionale ma, piuttosto, la demolizione dei meccanismi di cooperazione multilaterale da cui dipende il progresso collettivo. Un obiettivo politico che prelude alla nascita di un nuovo ordine mondiale e che mette i Paesi europei di fronte a due alternative: rispondere in ordine sparso o accelerare il processo di integrazione sovranazionale. La prima opzione indebolisce la capacità di risposta e aumenta i rischi di una recessione. La seconda è certamente più complicata, ma potrebbe consentire di realizzare con più efficacia gli interessi europei. In un recente articolo sul Financial Times, Draghi ha ripreso uno studio del Fondo Monetario secondo cui le barriere esplicite o implicite alla realizzazione di un mercato unico (soprattutto per servizi e finanza) equivale ad avere tariffe interne all’Ue pari al 40%. Queste barriere hanno spinto i Paesi europei ad appoggiarsi agli Usa come grande mercato di sbocco dei nostri prodotti e dei risparmi. La dipendenza dagli Usa ci ha impedito di sfruttare le potenzialità del mercato continentale, ha impedito la realizzazione di un mercato dei capitali efficiente e ha limitato la crescita delle imprese tecnologiche e innovative. La migliore risposta alle politiche di Trump è, dunque, il rafforzamento della cooperazione a livello europeo, un continente composto da 450 milioni di cittadini altamente istruiti e ricco di tecnologie e competenze. A dispetto di chi oggi non fa altro che lamentare la nostra irrilevanza, l’Unione europea ha fatto in questi anni significativi progressi da un punto di vista politico ed economico. L’allargamento verso Est ha determinato un enorme aumento del reddito medio senza incidere negativamente sulla solidarietà e sulle politiche sociali. Eppure, le difficoltà sono note. Ogni Paese europeo resiste alla cessione di sovranità nel campo della regolazione, delle imposte, della politica estera e militare. Molti Paesi hanno bilanci fiscali squilibrati e una pressione fiscale eccessiva. L’effetto non intenzionale delle politiche di Trump potrebbe essere quello di spingere i nostri governi a riparare questi difetti? Se questo avvenisse, è bene che l’Italia agisca da protagonista.
Pietro Reichlin