“Each of my photos is like looking at a page from my diary.” Delfina Carmona’s process is defined by autobiography, experimentation and fun
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8 Settembre 2022«Compositore, ignora il solfeggio. Chitarrista, suona con due dita. Musicista ‘hot’, ha composto una messa», così la stampa francese presenta Django Reinhardt all’inizio degli anni Quaranta, quando annuncia la Messe des Saintes-Maries-de-la-Mer, messa che il chitarrista belga compone per celebrare i compagni rom. Non conoscendo appunto le note egli chiede l’aiuto del clarinettista Gérard Lévêque, ma il lavoro si presenta più arduo del previsto e viene abbandonato dopo diciotto mesi, lasciandolo incompiuto, tranne una rara registrazione (1944) all’organo (Léo Chauliac) inedita per lungo tempo.
VICISSITUDINI
La messa – il cardine della religione cattolica e di altre fedi cristiane dagli ortodossi ad alcune comunità anglicane e luterane – è tra le forme musicali più impiegate nella storia della musica occidentale, mentre nel jazz ha molte curiose vicissitudini, a partire dal misconoscimento da parte dei jazzologi americani di quanto avviene sul Vecchio Continente e nel Nuovo Mondo (fuori dagli Usa), al punto che evitano forse di proposito, sull’argomento (perché troppo a sinistra?), tre lavori significativi di altrettanti jazzisti (un ceco e due italiani) di alto profilo internazionale come Missa jazz (1969) di Gustav Brom, Messa d’oggi (1970) di Enrico Intra e Sacred Concert. Jazz Te Deum (2000) di Giorgio Gaslini.
Ma ignorata oltreoceano è pure la notevole Missa nobis (1968) – dedicata a Martin Luther Ling – dei Folkstudio Singers fondati a Roma dai fratelli Eddie e Jesse Hawkins, cantanti afroamericani che interpretano i brani in latino con suoni blues-gospel-folk. Stessa sorte tocca al messicano Tino Contreras y Su Grupo con Misa en jazz (1966), agli uruguaiani Sexteto Electrónico Moderno con Misa Beat (1970), al brasiliano Airto Moreira con Misa espiritual (1983, eseguita anche da Gil Evans), ai cubani Irakere con Misa negra (1987).
Il successo discografico di queste messe – a cui andrebbe aggiunta la Missa luba (1958) ormai un classico per la Repubblica popolare del Congo, ma in origine registrata da Les Troubadours du Roi Baudouin, quando la nazione è ancora colonia belga – consente per la prima volta di abbinare due parole – «Vaticano» e «jazz» – in maniera positiva, se si pensa che solo nel 1946 il mensile Musica Jazz finisce sull’indice dei libri proibiti per il semplice fatto di esporre foto di pin-up in copertina. Per trovare una rispondenza popolare tra Vaticano e jazz, occorre guardare a quella sorta di «Woodstock cattolica» la sera del 27 settembre 1997, quando, a conclusione del Congresso eucaristico, con papa Giovanni Paolo II spettatore d’eccezione, il concerto vede sul palco la rockstar Bob Dylan, diversi cantanti pop italiani e un vero jazzista, il pianista francese Michel Petrucciani, affetto da osteogenesi imperfetta, con fatica avvicinatosi a mani giunte al papa.
Per molti, invece, torna alla memoria, circa dieci anni prima, novembre 1986, l’album di Sarah Vaughan Sings «One World One Peace». The Poems of Pope John Paul II, in cui la grande vocalist afroamericana interpreta alcune liriche scritte in gioventù da Karol Wojtyla e qui musicate da jazzisti come Francy Boland, Sante Palumbo, Tito Fontana: il disco viene in realtà inciso alla Tonhalle, Düsseldorf dal 28 al 30 giugno 1984 da un’orchestra diretta da Lalo Schifrin, comprendente fra gli altri Tony Coe, Sahib Shihab, Bobby Scott.
In anni recenti gli studiosi americani convengono finalmente a sostenere, all’unanimità, che la tipologia più comune, diffusa, originale di sacred jazz sia la Jazz Mass (o messa Jazz): si tratta di un «genere» eseguito perlopiù in forma concertistica (e discografica) che, rappresentato negli ambienti specifici del culto chiesastico, parte dal disco Black Christ of the Andes (1964) della pianista nera Mary Lou Williams, la quale – occorre forse ricordarlo – rimasta delusa dalla vita di artista laica, si converte al cattolicesimo nel 1957 e si impegna a comporre ben tre messe nell’idioma jazz: oltre quella sopracitata per il neocanonizzato Martin De Porres, ci sono If You’re Around When I Meet My Day e I Have A Dream (1968), ambedue presentate per la prima volta da un coro di voci bianche nel 1968 per onorare Martin Luther King da poco assassinato e la Mass for Lenten Season (rinominata Jazz for the Soul) per il Pontificio collegio pio Latino-Americano nel 1975 eseguita dal pianista e musicologo abate Rembert Weakland, da poco Primate della confederazione benedettina e futuro Arcivescovo di Milwaukee, nella Cattedrale di San Patrizio a New York. Williams persegue la difesa del jazz sacro e della messa jazz nel senso della vocazione divina, benché la Chiesa statunitense non accetti il jazz come suono appropriato per il culto ufficiale.
LA PRIMA VOLTA
Edward Valentine Bonnemère è invece un pianista che scrive una Missa hodierna che diventa nel 1965 la prima Messa Jazz mai usata in una chiesa cattolica negli Stati Uniti; quattro anni più tardi nel disco Missa laetare (Mass of Joy) per Frontress Records, diretta dal compositore, c’è una big band affiancata dal Lutheran Philapelphia Seminary Choir, condotto da Robert Bornermann; i due nel 1973 saranno poi cotitolari dell’album O Happy the People. Jazz Vespers, dieci inni religiosi per quartetto jazz con lo stesso coro. Già prima, comunque, nel 1966, Joe Masters registra Jazz Mass per una famosa major, dove a un tipico combo si uniscono solisti e coro che utilizzano il testo inglese della messa cattolica romana. Altri esempi interessanti di rapporti tra jazz e messa comprendono i lavori di due pianisti: Jazz Mass in Concert di Lalo Schifrin e Jazz Mass di Vince Guaraldi. In Inghilterra, negli anni Duemila il compositore Will Todd registra una Jazz missa brevis con solisti, jazz band e le voci di St. Martin, edita su disco anche come Mass in Blue; e l’hammondista James Taylor, fra i protagonisti dell’acid jazz britannico, compone The Rochester Mass; dal canto loro nella New York degli anni Dieci Ike Sturm (contrabbasso) e Deanna Witkowski (piano e composizione) vengono additati quali esempi migliori di jazz contemporaneo in ambito sacro e liturgico. Il jazzista popolare che si dedica maggiormente alla composizione di musica sacra, nel corso del tempo, con influenze decisamente classiche è invece Dave Brubeck, le cui partiture a soggetto religioso sono moltissime: va segnalata almeno Pilgrim of Hope. Pope John Paul II in the U.S. (1979) su disco per voce narrante (Helen Hayes) e coro (First Congregational Church Choir di Old Greenwhich nel Connecticut).
Normalmente i fedeli non si aspettano dunque il jazz durante la messa, eppure, stando alle parole scritte da Doug Smith nell’articolo Jazz in Modern Liturgical Mass (2017) è esattamente quanto sta accadendo nella Cattedrale di Copenaghen. Quando il Copenhagen Jazz Festival aggiunge la cattedrale della città, la Chiesa di Nostra Signora, all’elenco delle location, in prima istanza si pensa a un’abile mossa per poter utilizzare ogni spazio urbano disponibile nell’espandere il programma artistico-musicale, visto che ormai in tutto il mondo altri «festival urbani» impiegano le chiese come luoghi di effettistica suggestione.
Nessuno prevede che tale iniziativa si trasformi per l’edizione successiva nella «messa jazz di luglio» evento annuale della Cattedrale, facente quindi parte regolare del programma del Jazz Festival medesimo. Le messe jazz estive sono servizi di culto tradizionali guidati dal decano Anders Gadegaard, intrisi di jazz dal vivo guidato dal celebre Chris Minh Doky (contrabbasso), il quale musicalmente attinge dalle duplici tradizioni sia scandinave sia cattoliche.
Per Gadegaard, si tratta di migliorare un’esperienza: «Quando aggiungi questo tono jazz, diventa molto più vitale per le persone e diventa più facile per noi proclamare il vangelo». I danesi vanno oltre, includendo via via anche il jazz negli eventi speciali come una «Night Church» il giovedì, il venerdì e la domenica: servizi che offrono preghiere, elettronica, poesie, jazz, laboratori gospel e altre forme contemporanee a lume di candela.
In parallelo il bianco americano J.J. Wright (piano, direzione, composizione) parimenti appassionato di musica sacra e di jazz moderno – collaboratore al Caribbean Jazz Project assieme al celebre Dave Samuels (vibrafono) per il cd Afro Bop Alliance (2008) che vince il Latin Grammy Award for Best Latin Jazz Album – lavora anche con il Coro della Cappella Sistina di Roma nel 2016. Wright vede l’ingresso del jazz nella liturgia come un modo per gettare nuova luce sul culto e aprirlo a un nuovo pubblico. In un’intervista del 2016 dichiara: «Voglio vedere una piena rinascita del modulo. Tradizionalmente era da dove proveniva la migliore musica. E penso che ci sia una grande opportunità per noi ora, specialmente dopo il Concilio Vaticano II e la chiesa cattolica, dove i servizi e le messe sono ora in inglese. Quindi c’è un’opportunità di relazionarsi con le persone in un modo nuovo».
LITURGIE
Musicisti contemporanei come Wright e Minh Doky stanno lottando affinché il jazz sia accettabile nella messa moderna, ma vale la pena notare che già nel 1959, lo stesso anno in cui papa Giovanni XXIII annuncia il Concilio, Ed Summerlin (tenore, arrangiamenti, composizione), persa la figlia neonata per un difetto cardiaco, vince il dolore, incoraggiato da un prete che gli volge i sentimenti nel contesto musicale e religioso, il cui risultato è Liturgical Jazz, anche il primo album a nome Summerlin. Nessuno prima di lui, scrive la parola «messa» su una partitura jazzistica: l’album viene annunciato come «un’ambientazione musicale di un ordine della preghiera del mattino» portando l’ascoltatore in un viaggio attraverso la liturgia con brani musicali specifici che accompagnano le diverse sezioni chiave.
Voltando pagina, dopo alcuni colloqui con un paio di sacerdoti sull’idea di scrivere una «Misa en jazz» per la chiesa («fare della mia musica un mezzo per lodare il signore»), l’argentino Miguel Ángel Castellarín scrive all’allora vescovo di Buenos Aires, il quale a sua volta lo invita per un incontro. È il 2 luglio 2012, verso le 8 di mattina e Jorge Bergoglio gli dice: «Nella tua lettera mi hai ricordato la mia adolescenza». Il pensiero va alle frasi della missiva in cui il jazzista gli racconta di Frank Sinatra, di Benny Goodman e di altri jazzmen importanti per la formazione di un ragazzo. Ma ora il musicista ricorda al religioso un Corpus Domini in cui parla molto dei giovani e dei loro problemi, dalla povertà alla corruzione, usando un’espressione forte: «Chi cammina senza lasciare un’impronta, è inutile». E Castellarín vorrebbe lasciare la propria impronta nella musica sacra attraverso una «misa jazz»: «Hay que tocar!» (letteralmente «bisogna suonare») risponde l’alto prelato: il colloquio durerà un’ora, con una benedizione finale e un saluto affettuoso.
Il jazzista inizia a lavorare alla sua messa per un secondo appuntamento fissato per marzo 2013: nel frattempo il vescovo diventa papa Francesco: «È stata una felicità enorme – confessa Miguel Ángel – e attraverso la curia gli mandai una lettera per ringraziarlo, assieme a un disco di Goodman. Non passò molto e mi arrivò la risposta del papa». La messa jazz, intanto, prende la forma definitiva, giacché da un primo abbozzo con dieci musicisti e sette coristi si allarga rispettivamente a venticinque strumenti e trentacinque voci. Alle prove si delinea quasi una famiglia: «A cantare – spiega il jazzista – c’erano due evangelici e nella prima formazione suonava il trombone una ragazza ebrea, il pianista è non credente, il secondo tastierista è proprio ateo. Si chiama Santiago, a un certo punto ha detto: ‘Quasi quasi mi converto’». È il 23 giugno, quando nel salone della Usina del Arte, a Buenos Aires, viene presentata la misa jazz: un concerto che Castellarín condivide con l’amico Gabriel Nuñez (presente negli arrangiamenti), Daniel Raffo (chitarra), José Martin Aspiazu (direzione), l’Afrosound Choir. Si registra un disco dal vivo, che però sarà usato solo per promuovere il progetto.
Tuttavia quella forse più nota, popolare e rappresentata in tutto il mondo risulta A Little Jazz Mass composta nel 2004 dal britannico Bob Chilcott allora quarantanovenne: non si tratta solo di una celebre pagina corale, ma di un moderno capolavoro, una Missa Brevis in cui le cinque parti della liturgia sacra si fondono con la modalità proprie del jazz contemporaneo e della black music, accentuando elementi precipui dal groove allo swing, dal ritmo al feeling. Presentata per la prima volta al Crescent City Choral Festival di New Orleans, ottiene da subito il favore del pubblico, grazie alla maestria di un autore ritenuto tra i massimi compositori/direttori viventi di musica per coro in Gran Bretagna, non a caso già cantante e arrangiatore per i celebri King’s Singers, il cui repertorio spazia dal gregoriano ai Beatles, non senza affrontare il jazz medesimo sotto forma di scat e vocalese.
FUORI I DISCHI
Tutto questo forse è oggi possibile, leggendo, tra le novità del rivoluzionario Concilio Vaticano II, un punto riguardante proprio l’uso della musica nella messa: al paragrafo 119 del documento ufficiale si legge: «(…) In alcune parti del mondo, specialmente terre di missione, vi sono popoli che hanno le proprie tradizioni musicali, e queste svolgono una grande parte alla loro vita religiosa e sociale», affermando inoltre che si possono concedere alcune indennità per incorporare nella liturgia le musiche arcane e popolari di un territorio di missione, a condizione che il rito romano originale sia in gran parte conservato.
Ed Summerlin & Roger Ortmayer, Liturgical Jazz (Ecclesia Records, 1959)
Molto ben accolto, all’epoca, dalla rivista Downbeat, elogia l’uso efficace di un «assolo di batteria dietro la benedizione», così come «il contrabbasso che accompagna la confessione generale»; e questi elementi risultano «non solo fantasiosi, ma hanno anche una funzione di migliorare notevolmente queste parti del servizio». Sottotitolo: A Musical Setting for an Order of Morning Prayer.
Paul Horn, Jazz Suite on the Mass Texts (Rca Victor, 1965)
Il precisare in copertina Composed and Conducted by Lalo Schifrin sta a indicare la sinergia tra i due (flauto e piano) in un lp con «(…) Il jazz orchestrale dinamico e cinematografico che ti aspetteresti da Schifrin, e anche pezzi di free jazz senza limiti tonali o temporali. La sezione del coro unisce le opere con un effetto meraviglioso e l’album ha vinto un Grammy per la migliore composizione jazz originale».
Mary Lou Williams, Music for Peace (Mary Record, 1970)
Il simbolo hippie di «pace e amore» in copertina, così come alcuni tratti soul, in un impianto sostanzialmente boppistico, cerca forse di accattivarsi il pubblico giovanile americano, a sua volta suggestionato da tutto ciò (religioni comprese) che è contro le guerre e le violenze: è il secondo dei tre capitoli «cristiani», dopo che i tanti amici nei circoli sia religiosi sia jazzistici la convincono a mettere il talento a disposizione di uno scopo divino.
Mary Lou Williams, Mary Lou’s Mass (Mary Records, 1975)
Questa terza messa della mitica jazzgirl (piano, arrangiamenti, direzione), comunemente nota quale Messa di Mary Lou, viene commissionata dalla Pontificia commissione giustizia e pace nel 1969 e diventa la sua opera più nota. Presentata in anteprima (1970) alla St. Paul’s Chapel della Columbia University, ottiene il massimo riconoscimento come parte della messa nella cattedrale newyorkese di St. Patrick (1975).
Bob Chilcott, A Little Jazz Mass (Oxford University Press, 2005)
Di quest’opera esiste la partitura con cd didattico che serve d’accompagnamento per versioni più o meno estemporanee, ma anche per scoprire la natura eclettica di questa messa, ormai un grande classico del sacred jazz, pur traendo ispirazione da canzoni popolari, canti gregoriani, inni anglicani, spiritual americani e retaggi africaneggianti.
The Oikos, Ensemble Dreams & Visions (autoprodotto, 2009)
Il gruppo proveniente da Cleveland, ma con sede a St. Louis, è frutto della collaborazione tra il Rev. Clifford Aerie e il Dr. Chri.stopher Bakriges: unendo competenze teologiche ed etnomusicologiche e ispirandosi soprattutto alla spiritualità del grande John Coltrane, la band, dopo la pubblicazione del cd continua imperterrita a suonare per eventi religiosi.
Deanna Witkowski, Makes the Heart to Sing: Jazz Hymns (Tilapia Records, 2017)
La leader (piano e arrangiamenti) in trio con Daniel Foose (contabbasso) e Scott Latzky (batteria) condivide molti video online facendo dei brani dall’album dei servizi di culto in stile jazz. A prescindere, il disco è valutato positivamente da Dan Bilawski su All About Jazz per la capacità di swingare assai bene su musiche religiose lontane nel tempo e nello spazio.