
La saga del rapporto tra il presidente USA Donald Trump e il CEO di Tesla, Elon Musk
6 Giugno 2025
Noi scrittori e la lezione viva di Francesco
7 Giugno 2025
La rapida rotazione dei creativi e le aspettative finanziarie: il caso Dior. E pensare a quando l’atelier chiudeva con la morte del fondatore
di Fabiana Giacomotti
C’è stato un tempo in cui, alla morte del fondatore, l’atelier di moda che aveva fondato chiudeva. Scomparso fra grandi corbeille di fiori bianchi il maestro, esauriti quei suoi tagli inimitabili per i quali le signore abbienti si davano battaglia nei camerini come si vede nei film di Cukor e non era fiction, il grande portone veniva chiuso, le première consegnavano gli ultimi abiti ordinati premendosi il fazzolettino bordato di pizzo sugli occhi asciuttissimi, il contratto con la sartoria concorrente già in tasca. Bastavano due parole sussurrate alla cliente prediletta e ricominciavano altrove il giorno dopo, fresche come rose: “E, signora, la aspetto”. Talvolta non c’era neanche bisogno che il venerato maestro morisse; bastava avesse raggiunto la consapevolezza che un certo tempo, cioè il suo tempo, fosse finito e che fosse arrivato il momento di godersi l’agiatezza raggiunta sulle nevi di st Moritz. Capitava che non organizzasse nemmeno un défilé di addio, limitandosi a dare la notizia al giornalista di fiducia, dopo aver letto la quale sul journal du dimanche le vedove inconsolabili si sarebbero chiuse per quattro giorni in camera, come nel 1968 Mona von Bismarck alla notizia che Cristobal Balenciaga trovava i capelloni odiosi e le minigonne inadatte a vestire le donne che piacevano a lui, cioè ricche e sovrappeso, e che dunque chiudeva bottega. Sbollita la rabbia di dover trovare un altro sarto in grado di occultare difetti e magagne, le ricche non necessariamente sovrappeso si rendevano conto che quell’Hubert de Givenchy non era poi male, dopotutto era stato un allievo di Balenciaga ed era anche più fresco, ecco, più giovanile, e il giro ricominciava, più fresco davvero.
C’era anche un terzo caso. Quando il fatturato e la notorietà erano tali da rendere la chiusura un delitto per la società e per la famiglia tutta della moda, il delfino designato, o la sarta più abile, o i nipoti prediletti, acquisivano l’archivio, aprivano atelier a pochi passi o davano una bella mano di pittura a quello originale, affidavano tende e appliques all’architetto di grido e ricominciavano, tenendo giusto l’insegna che all’epoca non si chiamava marchio ma era come se lo fosse. Come avrete capito leggendo i quotidiani degli ultimi mesi, anche questo perché ormai alle notizie e i retroscena sui cambi di stagione dei creativi nessuno può sfuggire perché appassionano un certo tipo di pubblico come il calciomercato, quest’ultimo modello, cioè tenere duro finché regge e oltre, è quello che ha vinto. Christian Dior, il fondatore della maison dove pochi giorni fa Jonathan W. Anderson è stato nominato direttore creativo di tutte le linee couture compresa che significa diciotto collezioni all’anno, rimase per esempio a capo dell’atelier che aveva fondato per soli dieci anni, cioè fino all’estate del 1957, quando lo trovarono morto in una camera d’albergo a Montecatini dopo una cena particolarmente sontuosa, come venne riferito, alla quale era seguito un infarto. La maison, però, era già allora una multinazionale che vendeva modelli in tutti i paesi del mondo a sartorie selezionate perché potessero apporvi il loro marchio accanto a quello di “modèle déposé Dior”, oltre a calze e collant, guanti, scarpe e profumi, abiti per bambini e camicie da notte per giovinette, per cui il gruppo di tessutai e finanzieri di varia natura che lo sostenevano non se la sentirono di chiudere il portone di avenue Montaigne e di mettere per strada migliaia di persone, oltre ad arrischiare le proprie tasche, per cui nominarono in sua vece il giovanissimo Yves Saint Laurent, il prediletto del patron, che però durò solo qualche stagione perché venne chiamato sotto le armi e cadde nell’esaurimento nervoso di cui parlarono tutti e al quale seguì l’incontro con Pierre Bergé e la storia che si conosce. Quindi fu la volta di Marc Bohan, a tutt’oggi il direttore creativo che sia durato più a lungo e che inaugurò anche la linea uomo con Philippe Guibourgé, a cui seguì una lunga crisi che neanche in quella occasione si risolse con la chiusura perché il marchio venne acquistato da Bernard Arnault con finanziamenti di Banque Lazard e che ingaggiò Gianfranco Ferré. Dopo un decennio fu la volta di John Galliano, cioè del genio assoluto e ineguagliabile dell’ultimo mezzo secolo per le collezioni donna e di Hedi Slimane per quelle maschili che però piacevano anche alle donne, cacciato nel 2011 per insulti antisemiti lanciati a una coppia in un bar dove sedeva talmente strafatto e stanco e stressato che
certamente non si rese nemmeno conto di quanto stava dicendo e ancora di Raf Simons (che oggi lavora a fianco di Miuccia Prada) per un’altra breve stagione che nessuno capì e fu un peccato perché era niente male. Nel 2016, dalla direzione creativa di Valentino, che allora condivideva con Pierpaolo Piccioli, oggi chiamato a ridare allure a Balenciaga, la maison che tenne chiusi i battenti fino a quando un abile avvocato francese la risuscitò, insieme con molte altre, nei Novanta, arrivò Maria Grazia Chiuri, l’italienne, pronunciato perfino dai tassisti con una sfumatura di allarmato disprezzo perché l’idea di un’altra cisalpina a capo della “maison qui est l’emblème de la France, vous comprenez madame”, e per di più una donna, una donna che fa vestiti da donna, inaudito, uno scandalo. Chiuri ribaltò i preconcetti virando sul femminismo e sul sostegno alle artiste e, fatto salvo l’inciampo non programmabile del lungo rapporto con Chiara Ferragni “pensati libera” e di quei milioni di meme che non smettono neanche oggi, in nove anni ha portato risultati strabilianti, quadruplicando il fatturato e rendendo il marchio attraente anche per le giovanissime.
Ma una cosa è disegnare vestiti, un’altra rispondere a obiettivi di budget che venivano alzati ogni tre mesi, per cui dopo nove anni, che a quei ritmi sono un’impresa epica, ciclopica, eccoci qui di nuovo a Roma, con molto tempo di bellezza da recuperare e un fantastico progetto da sviluppare, il Teatro della Cometa fondato nel 1958 alle pendici del Campidoglio da Anna Laetitia Pecci Blunt detta Mimì, una vita spesa nel sostegno degli artisti perché tutti passavano da lei, a Roma come nella Villa reale di Marlia acquistata ai primi del Novecento, Moravia, Bontempelli, Cocteau, Malaparte e l’altro giorno ho messo le mani su una rivista del 1929 che dà il resoconto di una di quelle estati nella Lucchesia e l’elenco dei partecipanti sembra quello di un ballo a corte, anzi è sicuramente più qualificato perché in fondo i Savoia non sono mai piaciuti a nessuno e prima che arrivasse Maria José dal Belgio forse non avevano mai ricevuto uno scrittore. Adesso che Chiuri sa come impiegare nove anni di bonus più la buonuscita e nell’impresa ha coinvolto tutta la famiglia, ecco Anderson, che appunto produrrà più collezioni all’anno dei mesi che vi si possono contare e che infatti dicono sia già piuttosto nervoso. La divisione “moda e pelletteria” del gruppo Lvmh ha subito un calo del 4 per cento nel primo trimestre dell’anno, 10,1 miliardi di euro, molti auguri a lui come a Nicolas Ghesquière che governa la creatività della divisione donna di Louis Vuitton senza che nessuno gli chieda conto delle vendite dei vestiti perché quelle che contano sono le borsette, e a tutti gli altri creativi che in questo momento sono stati chiamati a risollevare le sorti di un settore che continua a definirsi di lusso perché tali sono le sue strategie di comunicazione, mentre le strategie che sottendono alle molto celebrate “esperienze” per i clienti che spendono minimo un milione di euro all’anno sono apparentabili a quelle dell’industria mass market però con multipli da gioielliere e dalla contraddizione fra le due direttrici ogni tanto originano incidenti gravi come l’amministrazione giudiziaria per omesso controllo nella catena dei subappalti. Qualche settimana fa, parlavo del caso McQueen con uno dei consulenti strategici che vanno per la maggiore; si diceva convinto che Sean McGirr, il creativo prodigio messo a capo dello stile del marchio, avesse ancora bisogno di qualche stagione per entrare nello spirito del fondatore. Gli ho chiesto per quale ragione, essendo appunto McGirr così bravo, non avesse diritto all’apertura di un atelier a suo nome, senza essere costretto a replicare, ovviamente senza riuscirci, i fantasmi di un ragazzo londinese di molto genio e terribile angoscia che si è suicidato quindici anni fa. Ha replicato che “la community” del marchio è ancora abbastanza forte, al che ho ribattuto di provare a scendere per strada e chiedere a un ventenne chi sia stato Lee Alexander McQueen, e la conversazione si è chiusa con tante promesse di vedersi per un caffè nei prossimi mesi. C’è da capire Giorgio Armani che dà fino all’ultimo, in prima persona, i tocchi alla sua bella mostra al Silos di Milano per i vent’anni della collezione couture, la Privé: chi va a vederla, sa che il fondatore è lì, non solo in spirito.
A proposito di esposizioni, se aveste qualche dubbio su chi abbia lanciato la tendenza dell’atelier eterno, inossidabile alla caducità umana e anche al buon senso, potete fare un giro alla mostra
dedicata a Charles Frederick Worth al Petit Palais di Parigi fino al prossimo autunno: oltre ad essere inscritto nei volumi di storia della moda come il “padre della haute couture”, questo inglese baffuto, panciuto e con il basco à la Raffaello sempre calcato in testa perché si riteneva un artista e voleva farlo notare, predispose l’impresa perché figli e nipoti la sviluppassero in gloria, tessuti modello tappezziere e moneta sonante, cosa che avvenne fino a tutti gli Anni Cinquanta, a esclusione di un piccolo tentativo di recupero nei primi Duemila, il solo marchio si intende, con abiti e biancheria fatti qui e là, cioè dai façonisti. Worth viene magnificato nei libri di moda come il fondatore della haute couture e del moderno “concetto di atelier”, moda su etichetta griffata dal 1858, che poi non è tanto vero perché la casa di moda più antica d’Europa si chiamava Ventura, aprì nel 1815 a Milano, dai primi del Novecento aveva succursali in mezza Italia, da Genova a Roma, e vestì anche Maria José nel giorno del matrimonio nel 1930, su disegno del promesso sposo Umberto di Savoia a cui piaceva molto disegnare vestiti. Chiuse negli ultimi anni della guerra, parte dell’atelier passò alle dipendenze della migliore fra le sarte del gruppo, Fernanda Gattinoni, il resto si ricollocò con Gabriella di Robilant, in arte Gabriellasport; ogni tanto incrocio ancora gli eredi Ventura al golf sul lago, i pochissimi abiti rimasti sono in mani private, ne metterò uno in mostra a breve, uno dei loro modelli più famosi nei Trenta fu uno chemisier da sera rosso con le tasche a forma di rosa, modello ripreso nei primi Duemila da Valentino Garavani, al momento un po’ in ambasce perché l’ingaggio di Alessandro Michele, ex artefice del miracolo di Gucci, non sta dando i risultati previsti e il cofondatore Giancarlo Giammetti, che ha appena inaugurato la sede espositiva della Fondazione, PM23, ha risposto piccato sui social a una sua battuta pubblica sul valore, o disvalore che sia, della bellezza. Nessuno di questi creativi che continuano a scambiarsi poltrona ha meno di cinquant’anni, forse solo Matthieu Blazy che Chanel ha ingaggiato pochi mesi fa, strappandolo da Bottega Veneta, e appunto McGirr. I loro nomi vengono sventolati, usati, rispolverati ogniqualvolta si apra un posto o si intravveda la possibilità di un nuovo cambio. Non è pigrizia della stampa; è la consapevolezza che, per non rischiare in proprio, il management delle grandi imprese della moda, gli stessi investitori, preferiscano pagare cifre milionarie per nomi conosciuti invece di scommettere, come facevano solo venti o trent’anni fa, su giovani pieni di idee. Il risultato sono collezioni sostanzialmente identiche, lavorate e sviluppate su archivi talvolta fin troppo conosciuti, e su una sostanziale ripetitività e uniformità che allontana i nuovi clienti, invece di attrarli. I fatturati, come si dice, son lì da vedere. E non si tratta solo di crisi congiunturale.
Talvolta non c’era neanche bisogno che il venerato maestro morisse, perché chiudesse il suo atelier.
Bastava la consapevolezza del tempo
Ma ha vinto il modello tenere duro finché regge e oltre. Dopo Christian
Dior: Yves Saint Laurent, Marc
Bohan… Fino a Maria Grazia Chiuri
Oggi da Dior c’è Jonathan W.
Anderson, che produrrà più collezioni all’anno dei mesi che vi si possono contare. E’ già nervoso Il management delle grandi imprese preferisce pagare cifre milionarie per nomi conosciuti invece di scommettere su giovani da scoprire