Il corpo come strumento di sperimentazione e opera Al Maxxi va in scena la storia delle azioni artistiche in Italia dagli anni Sessanta agli Ottanta
di Lorenzo Madaro
Corpo inteso come spazio di tenace sperimentazione e azione attiva e plurale, luogo intenso in cui verificare un pensiero: ciò accade sin dagli albori della performance, anche in Italia che pionieristicamente inizia ad accogliere le esperienze più estreme di questo linguaggio sin dai Sessanta, grazie alla lungimiranza dei nostri artisti e di quegli stranieri, nomadi per vocazione. In un tempo in cui la maggior parte delle (poche) istituzioni si concentrava su un passato più o meno glorioso, il presente era appannaggio di coraggiose gallerie, spazi alternativi di informazione e luoghi domestici in grado di accogliere questa granderivoluzione in atto, su cui oggi si concentra opportunamente la mostraTerritori della performance: percorsi e pratiche in Italia (1967 – 1982) che Lara Conte e Francesca Gallo curano al Maxxi (fino al 28 maggio; info maxxi. art) come restituzione di un lungo percorso di indagine svolto anche in ambito accademico, visto che entrambe insegnano in università (rispettivamente a Roma 3 e alla Sapienza). Una mostra nata da un doppio studio approfondito e intrecciato, quindi, e che ha un intento didattico anche grazie all’ausilio di grafiche sinottiche in grado di generare connessioni, cronologie, riferimentia luoghi e spazi. Il progetto, allestito nell’ambiente che il museo ha ribattezzato Archive Wall, dove di recente Maria Alicata ha curato un prezioso progetto sull’archivio della galleria Ugo Ferranti, propone una prima ricognizione espositiva della storia delle azioni performative attraverso documenti, alcuni dei quali inediti, fotografie, video, audio, testi, lettere, progetti e schizzi. La mostra ha il pregio anzitutto di puntare lo sguardo non (soltanto) sui casi già ampiamente noti e perlustrati, ma anche su esperienze misconosciute, come la performance del 1981 della francese Orlan, con corpi nudi abbarbicatisui coni dei trulli di Martina Franca, invitata da una gallerista e collezionista audace e intelligente, Lidia Carrieri, in un sud all’epoca ancora molto infarcito di pittura di paesaggio e tradizione. Particolarmente interessante all’interno di questa ricognizione, come suggerisce anche Lara Conte, è la mostra Contemporanea del 1973, curata da Achille Bonito Olivanel garage di Villa Borghese a Roma, «in un momento in cui anche la critica diviene performativa e gli spazi espositivi pure, perché devono accogliere determinate istante legate a una nuova ritualità». Già, la ritualità. È questo uno dei paradigmi essenziali del lessico della performance, lo sanno bene per esempio gli artisti di Fluxus, con la loro geografia tentacolare, o galleristi come Fabio Sargentini, che a Roma, per il suo L’Attico, decide di cambiare sede, dagli spazi borghesi di piazza di Spagna al garage coraggioso di via Beccaria, dove l’azione è parte integrante del fare, basti pensare ai cavalli vivi di Kounellis nel 1969. Un peso notevole in mostra ce l’hanno, giustamente, le donne: Marisa Merz, con il suo spazio intimo e domestico (la cucina di casa) eletto a teatro performativo, Anne Marie Sauzeau Boetti, Gina Pane, Tomaso Binga (Bianca Menna) e naturalmente Marina Abramovi?, soprattutto per la sua presenza all’epica settimana della performance del 1977, curata da Renato Barilli alla Galleria d’arte moderna di Bologna, la prima istituzione in Italia che ha avuto la forza di accogliere un discorso sulla performance.
Chi si addentrerà pertanto in questo focus espositivo, come avverte Francesca Gallo, potrà vivere una avventura, ovvero «la sfida di poter vivere l’azione delle performance attraverso il materiale documentario».Perciò questa mostra è una sorta di archivio degli archivi, inserendosi in una linea assolutamente importante che il Maxxi ha portato avanti anche studiando l’archivio di Alberto Boatto. Ultimissima tappa di quest’ultima ricognizione espositiva è un intervento performativo del giovanissimo Cesare Pietroiusti sull’avvio degli Ottanta. Da quel momento le cose cambieranno, la performance inizierà ad essere un territorio caro alle pratiche collaborative. Ma questa è tutta un’altra storia che le due curatrici si augurano di poter approfondire in un secondo episodio espositivo.