La stagione delle Br non va solo condannata, ma anche metabolizzata
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DALL’INVIATO A BRUXELLES
La trattativa con Bruxelles per scongiurare il taglio dei fondi è già partita ed entrerà nel vivo nelle prossime 6-8 settimane, ma Viktor Orban è consapevole che potrebbe non andare a buon fine. Per questo sa che la vera partita potrebbe giocarsi tra la metà di novembre e quella di dicembre: per vincerla avrà bisogno del sostegno di alcuni governi amici e il posizionamento del prossimo esecutivo italiano rischia di rivelarsi determinante. Roma potrebbe aiutarlo a costruire quella minoranza di blocco necessaria per respingere il tentativo della Commissione di chiudere il rubinetto dei fondi di coesione. E i segnali ricevuti giovedì con il voto degli eurodeputati di Lega e Fratelli d’Italia vanno proprio nella direzione auspicata dal premier ungherese.
L’ultima mossa di Bruxelles preoccupa seriamente Orban. Soltanto tre giorni fa aveva definito «una noiosa barzelletta» il report del Parlamento europeo, che lo accusa di aver trasformato l’Ungheria in una «autocrazia elettorale». Si tratta di una critica durissima, perché secondo la maggioranza degli eurodeputati l’Ungheria non può più essere definita una democrazia. In realtà questa contrapposizione è pane per i denti del leader che siede da più tempo al tavolo del Consiglio europeo e che si è sempre nutrito dello scontro con le istituzioni Ue. Ieri, però, la reazione del suo governo è stata decisamente diversa. Il taglio dei fondi proposto dalla Commissione non è un affondo ideologico, ma una misura concreta dagli effetti tangibili. Vale 7,5 miliardi, che corrispondono al 5% del Pil annuale ungherese: un colpo capace di mettere in ginocchio l’economia del Paese. Per questo Orban è convinto che il provvedimento vada fermato a tutti i costi: cercando un compromesso con Bruxelles oppure, qualora questo non bastasse, aggrappandosi ai governi pronti a sostenerlo.
Per cercare di dirimere le controversie sullo Stato di diritto con Polonia e Ungheria, l’Unione europea aveva sin qui utilizzato l’arma dell’articolo 7. Una procedura che può portare persino alla perdita del diritto di voto in Consiglio, ma che si è rivelata inefficace. Per far scattare la maxi-sanzione è necessario un via libera all’unanimità e i due Paesi si sono sempre coperti a vicenda, disinnescando ogni possibile provvedimento nei loro confronti. Ma con il nuovo meccanismo di condizionalità le cose sono cambiate: per approvare il taglio dei finanziamenti del bilancio Ue non è necessario raggiungere l’unanimità in Consiglio, basta la maggioranza qualificata. Per far diventare immediatamente esecutiva la proposta della Commissione è sufficiente che almeno 15 Stati membri rappresentanti il 65% della popolazione diano il via libera. Per Orban diventa dunque fondamentale costruire una cosiddetta minoranza di blocco, che si forma riunendo almeno quattro Stati che rappresentino più del 35% della popolazione europea.
Nonostante la rottura dei rapporti dovuta alle diverse posizioni sulla crisi ucraina, Polonia e Ungheria restano alleate nella battaglia contro “le ingerenze” di Bruxelles sullo Stato di diritto in una logica “simul stabunt, simul cadent”. Oggi a te, domani a me. Per lo stesso motivo, anche altri Paesi che ricevono molti soldi dal bilancio Ue e che hanno qualche problema con lo Stato di diritto potrebbero essere tentati dal difendere Orban: Bulgaria, Romania, Repubblica Ceca e Slovacchia, in passato, si erano già schierate in questo senso. Ma il loro voto contrario non basta, Orban ha bisogno di altri alleati. Si guarda al nuovo governo svedese, certo, ma soprattutto a quello italiano che uscirà dalle urne di domenica. Con il 13,4% della popolazione Ue, l’Italia può spostare gli equilibri al tavolo del Consiglio. «La destra starà con chi rispetta lo Stato di diritto o con Orban?» si è chiesto il sottosegretario agli Affari Ue, Enzo Amendola, che oggi rappresenta il governo italiano al Consiglio Affari Generali, l’organismo che dovrà prendere la decisione. MA. BRE.