Cosa sono state le Brigate rosse? Oltre, naturalmente, a qualcosa da condannare senza se e senza ma: premessa necessaria a ogni discorso sulla lotta armata.

Da qualche mese studio la storia di quegli anni: mi documento per un testo da scrivere. E mi ha colpito fin da subito la presenza di un oggetto ricorrente in quasi ogni libro sull’argomento: una premessa, più o meno ampia, più o meno netta, con cui l’autore di turno condanna quell’esperienza, ne prende le distanze, definisce la propria posizione in campo. Come la firma su un luogo del delitto, quella premessa cambia forma ma ritorna sempre.

Ora esce un nuovo libro sulle Brigate rosse. L’ha scritto uno dei suoi storiografi più fedeli, Pino Casamassima: mille pagine frutto di una lunga ricerca. È anche, questo libro, la sintesi di ciò che una generazione (Casamassima è del ‘53) ha da dire su quella stagione: un decennio in cui ragazzi apparentemente normali, di ogni estrazione sociale, venuti tanto dalle fabbriche quanto dalle università, hanno imbracciato le armi, ferito e ucciso persone. Oggi sembra assurdo pensare che una cosa del genere possa essere accaduta in Italia.

Ebbene, anche il libro di Casamassima ha la sua ferma condanna in esergo: «Per i Greci, intraprendere un percorso di violenza significava regredire a un tempo prepolitico; significava precipitare in una dimensione domestico-familistica di stampo tribale regolata dalla forza».

UNA QUESTIONE POLITICA

Certamente vero. Ma perché questa ricorrente premessa? C’è davvero bisogno di ribadire ogni volta che la violenza è un male? La questione è politica. In quegli anni c’è stata una battaglia, un conflitto che ha ancora molti conti aperti: e chi ne parla sente il bisogno di precisare la propria posizione, nella consapevolezza (tipica di chi vive le guerre) che non è concessa neutralità. Ne parlo dall’esterno: sono estraneo ai fatti, e anche il discorso storiografico su quegli anni è in mano alla stessa generazione che li ha vissuti.

Ma credo che molte questioni che si credono chiuse siano, invece, ancora lì, irrisolte: bilanci e giudizi dati storicamente e giuridicamente, sì, ma politicamente più aperti di quanto si sia disposti ad ammettere. Lo rilevava già Mario Moretti nella sua nota intervista con Carla Mosca e Rossana Rossanda: c’è uno sforzo collettivo, più o meno cosciente, nel tenere la storia delle Br sempre nell’ambito penale, fuori da un discorso politico. Eppure – mi chiedo leggendo questa storia – a distanza di quarant’anni, si può davvero capire quell’esperienza al di fuori di un discorso politico?

Il libro di Casamassima è documentatissimo, ampio, lo si legge come un grande romanzo di non fiction. Attraversare queste mille pagine è un’esperienza rara, ricca, difficile da capire e districare. Perlomeno lo è per me: sono nato nel 1987, cinque anni dopo la fine ufficiale delle Br; ho trentaquattro anni, pressappoco l’età che aveva Moretti quando sparò a Moro.

Credo di essere un campione sufficientemente rappresentativo della mia generazione quando dico che, di questa storia, ne sapevo poco: quello che di quegli anni è arrivato a me è sempre chiuso tra le virgolette di quella perenne dichiarazione posizionale: una stagione impossibile a leggersi fuori dalla cappa del processo penale e dalla contrizione dei pentiti, come fosse una storia di mafia.

NARRATIVA UNICA

Romanzi e film, che non sono mancati e tutt’ora abbondano, ripetono più o meno romanticamente sempre lo stesso schema: il sogno tradito, la descensus ad inferos di una generazione sognante e perduta. In fondo anche questa è una faccia della contrizione: anche il lirismo tragico può essere una forma di damnatio memoriae.

Il pur bellissimo film di Bellocchio Esterno notte non esula da questo topos: una rigida polarità buoni-cattivi calata in una nerezza generale che poco spazio lascia a una vera indagine delle ragioni, dei motivi, degli impulsi, dei meccanismi sottesi a una stagione in cui – sembra assurdo pensarci oggi – in Italia ci si è sparati addosso per strada. Persone normali, della mia età hanno imbracciato le armi. Questa non è solo una tragedia: è anche un enigma. Che si ha il dovere di provare a sciogliere. Magari con altri, diversi schemi di lettura.

Si può leggere questa storia in molti modi. Si può leggerla, ad esempio, come la storia di una cattiva educazione, un bildugsroman rovesciato: prima le fabbriche, le felici utopie; poi la clandestinità, la violenza, la morte; e infine l’epilogo, un crollo fatto di tradimenti, delazioni, dissociazioni.

Una storia che ruota intorno a quella lotta col Padre che ha nell’uccisione di Aldo Moro l’epicentro tragico, la scena madre: il corpo del Padre assassinato che molti militanti delle Br dissero di aver sognato, in quei 55 giorni, padri uccisi che avevano tutti il volto del presidente della Dc.

Molti si chiedono cosa sarebbe successo se, invece di giustiziarlo nel cofano di quella 500, l’avessero liberato. Lo immaginò proprio Bellocchio, in Buongiorno, notte, che si chiudeva con un Aldo Moro che s’incamminava, diverso e leggero, sotto un cielo di pioggia. Non lo sapremo mai. Le Br non divennero mai adulte: rimasero eterni ragazzi, bloccati per sempre in quell’attacco al Padre.

Un’altra cosa sono stati quegli spari: l’esplosione che ha spinto – e continua ancora oggi a spingere – la sinistra verso destra. Una deriva tettonica che continua, lenta e imperterrita, da quarant’anni. Con quel big bang la sinistra europea non è mai riuscita a fare i conti: quella stagione le sta ancora lì, come una scheggia conficcata nella carne che nessuno toglie per paura che ne schizzi il sangue.

STORIA DA METABOLIZZARE

Ma le conseguenze si vedono. Si vedono nell’incapacità che la sinistra ha oggi nel parlare ai lavoratori e agli esclusi. Si vedono nell’incapacità di interpretare politicamente anche una sola delle contraddizioni del nostro presente. Si vedono nella sua incapacità di avere un linguaggio adeguato, si vedono nel suo arroccamento nella comfort zone del ceto medio, si vedono nel suo abbandono dei luoghi di sofferenza sociale. Ogni discorso politico sugli esclusi, sui sudditi, sugli emarginati è politicamente ancora fermo in quegli anni: intrappolato lì.

Si può leggere questa storia anche così: come la fotografia di questo vicolo cieco che sono stati gli anni Settanta. Se non altro per decidere che non è un destino inevitabile: i fantasmi possono, e anzi devono essere tolti di mezzo. Liberare il passato per poter liberare il presente.

Manca, alla mia generazione, un racconto di quegli anni che non abbia paura di riprendere in mano ciò che di positivo e di originale ci fu in quegli impulsi. Liquidare definitivamente i comunicati deliranti, le ideologie ossessive, i ferimenti, le sparatorie, le gambizzazioni, gli agguati, gli assassinii; e riappropriarsi della lotta per la dignità del lavoro, delle battaglie contro “il fascismo in camicia bianca” delle grandi aziende, delle militanze per il diritto a un’esistenza dignitosa e meno feroce, a certe forme di convivenza, di amicizia, di appartenenza, di comunità.

In quella storia ci fu, sì, la casa-prigione di via Caetani dove Aldo Moro fu segregato e ucciso, ma prima ci fu anche la casa-comune di piazza Stuparich, dove tante famiglie inventavano un nuovo modo di stare insieme, e «non c’era scissione fra vita politica e vita personale, preparare un volantino e badare ai bambini».

Soprattutto recuperare l’idea che la società non sia una prigione inamovibile e divina, ma una struttura elastica e migliorabile. Non avere paura di pensare il conflitto e la contraddizione. Non avere paura di scoprire che, a volte, la violenza può annidarsi negli stessi luoghi del desiderio. Bisogna conoscere i pericoli per evitarli, e gli errori dei vecchi militanti possono diventare una risorsa, e non solo l’oggetto di una condanna.

Ha scritto Mark Fisher che oggi molto più di allora esistono le condizioni di una messa in discussione sistemica della società: oggi molto più di allora il capitalismo vive una crisi profonda. E forse è necessario per la sinistra del futuro riattraversare quelle esperienze, per poter finalmente tornare a parlare di lavoro, di lotta di classe, di sommovimenti sociali, di cambiamenti strutturali. E, perché no, di rivoluzione, senza che queste parole evochino automaticamente l’odore del piombo.

Le stagioni non si superano condannandole. Vanno metabolizzate, altrimenti restano nell’organismo e lo avvelenano. Forse è ora di fare un passo in questo senso, e che lo facciano i più giovani, quelli che in quegli anni non c’erano, e godono oggi il magnifico privilegio del distacco. Sono loro – siamo noi – a dover riappropriarci di quella storia. I maestri vanno mangiati in salsa piccante, scrisse Pasolini. Anche quelli cattivi.


Brigate Rosse. Storia del partito armato dalle origini all’omicidio Biagi (1970-2002), Pino Casamassima, (Baldini+Castoldi 2022, pp. 1000, 28 euro)