«Sereni è tra i poeti della generazione postmontaliana quello forse di più sconcertante psicologia, di tecnica più mobile e ambigua. (…) Un certo perfezionismo interiore e letterario si associa scontrosamente in lui a una tematica di uomo comune, ricco di sentimenti che si affratellano o si dividono d’istinto con quelli di una comunità. Stinge, sulle immagini, la fatica, l’impotenza di esistere, il dubbio di non farcela: il supplizio di essere, in una parola». Si legge così sul risvolto non firmato de Gli strumenti umani, il libro maggiore di Vittorio Sereni, uscito in prima battuta nel 1965 per Einaudi, e accompagnato da un disegno in copertina di Odilon Redon: un albero malinconicamente spoglio, che risponde piuttosto bene al senso di fallimento e sterilità esistenziale – «il dubbio di non farcela» – che si leva da queste righe («E tu mia vita salvati se puoi» diceva già, del resto, un suo verso scritto circa vent’anni prima).

Il risvolto degli Strumenti umani offriva in effetti alcune delle coordinate fondamentali entro cui collocare la terza raccolta sereniana: l’appartenenza alla nuova età della poesia italiana che si apre dopo Montale – cui Sereni, non a caso, dedica alcune delle sue pagine critiche più intense –, insieme al dissidio tra difesa della propria interiorità e apertura agli altri che rimarrà a fare da sfondo alla sua scrittura. E poi c’è, soprattutto, quella «sconcertante psicologia», un’instabilità che si concretizza nel «supplizio di essere» ed è all’origine dei suoi versi: dei vuoti d’aria che si avvertono in questa poesia, sempre in bilico fra possibilità della gioia e «promesse di ieri» che si spengono, anzi – più crudelmente – «vanno a brani», come un manifesto strappato («ogni verso dà uno strappo» col suo traumatico passato, ha scritto il suo lettore e interlocutore forse più accanito, Franco Fortini). Alle spalle di Sereni c’è l’appuntamento mancato con la Resistenza partigiana, e il conseguente, inevitabile senso di colpa. E c’è l’esperienza della tradotta e poi quella della prigionia, fra il ’43 e il ’45, memorabilmente consegnate, due anni dopo, allo splendido Diario d’Algeria. Quell’instabilità, quell’incertezza che diventa una seconda pelle dell’io – o meglio ancora una sua forma interna, l’unica possibilità di esistere – farà tutt’uno con la sua esperienza della poesia. Per una suprema virtù di autenticità, che forse non ha uguali nel Novecento poetico, sembra quasi non esistere un io lirico, un «personaggio» che scrive: si fatica a distinguere fra l’uomo Sereni e l’autore degli Strumenti («un poeta che (…) trova sempre più insopportabile la qualifica di poeta»: così, non a caso, il Montale recensore del libro, sul Corriere della Sera, nell’ottobre dello stesso 1965).

A cinquant’anni di distanza, possiamo ora osservare molto più da vicino il mestiere quotidiano della scrittura di Sereni: grazie alla messe ingente di studi a lui dedicati (a partire da quelli di Pier Vincenzo Mengaldo), o alla monumentale edizione critica della sua poesia procurata da Dante Isella per il ‘Meridiano’ mondadoriano (1995); e, più di recente, con la serie di edizioni annotate e ospitate nella collana della Fondazione Pietro Bembo per l’editore Guanda. Dopo il lavoro di Georgia Fioroni – che nel 2013, anno del centenario sereniano, ha offerto ai lettori le prime due raccolte, Frontiera (1941) e il già citato Diario d’Algeria – e in attesa che anche Stella variabile (1981) riceva le dovute attenzioni, possiamo ora contare su un ampio commento de Gli strumenti umani, a cura di Michel Cattaneo (Bembo-Guanda, pp. LXXIV- 399, € 50,00).

Che perplessità e insicurezza siano parte integrante della scrittura sereniana lo conferma, ad altro livello, anche la progressiva costruzione del libro. Si può dire che questo riproponga, su scala più ampia, ciò che accade alla lirica singola: gli Strumenti umani sono, a ogni livello, il frutto paziente – e anche per questo tanto più affascinante – di una maturazione lenta, che è il primo correlato dei doppifondi e delle esitazioni («della mia vita / esitante») di Sereni. Proprio sulla notevole stratificazione, sulle diverse stazioni che danno forma alla raccolta, si ferma, molto opportunamente, l’Introduzione, a partire dal primo nucleo di testi, affidati a una raccoltina assemblata nel 1956, Un lungo sonno, con cui Sereni vincerà il premio «Libera Stampa» di Lugano. È chiaro, sin dalle pagine introduttive, quello che è forse il maggior pregio del lavoro di Cattaneo: lo spirito di servizio. Il che, alle prese con un commento – e di un autore assolutamente centrale per il nostro Novecento – significa anzitutto ricchezza di dati, e chiarezza nel fornirli. Basti, per stare a un solo esempio, la questione per niente secondaria del titolo della raccolta: Cattaneo, che l’ha già esaminato altrove, documenta il travaglio che accompagna anche questa scelta, e le numerose (più di una ventina!) ipotesi scartate. Gli strumenti umani si impone solo alla fine, a volume quasi concluso. Davvero Sereni è il poeta dei tentativi continui, ossessivi, e dell’illuminazione che si sprigiona inaspettata, decisiva.

Come in una poesia dell’ultima sezione degli Strumenti – A un compagno d’infanzia – è la «frustata in dirittura» che arriva a dissipare, come un miracolo, il «cruccio che scempiamente si rigira in noi». L’abnegazione del commentatore agisce soprattutto nelle schede che introducono i singoli «pezzi»: forte è l’attenzione, oltre che alla «superficie» del testo – vedi la precisione con cui si entra nei profili metrici delle liriche – a ciò che, per così dire, non è immediatamente visibile. Da una parte, la genesi di ciascuna poesia, il suo percorso elaborativo, per il quale non si fa tesoro del solo – e già ricordato – apparato di Isella, ma anche, fra il resto, dei carteggi sereniani – quello con Umberto Saba, o gli scambi con Betocchi, con Caproni, ecc. – sempre più preziosi negli interventi critici degli ultimi anni. D’altra parte, è spesso valorizzato, dall’annotazione, il dialogo silenzioso di Sereni con le voci che abitano la sua memoria poetica, insomma la dinamica intertestuale. In questa entra ampiamente, e c’era da aspettarselo, la poesia montaliana, ma la rosa dei convocati è poi molto più ampia: da Gozzano (su cui Sereni scrive la sua tesi di laurea, e sul quale non sarà forse inutile tornare, anche sulla scia di questo commento) a un compagno di strada come Attilio Bertolucci.

Sull’uno e sull’altro aspetto – elaborazione e intertestualità – Cattaneo interviene in generale con equilibrio, improntando il suo lavoro a una giusta asciuttezza. È un bene non da poco, mi pare, che un tratto distintivo come l’essenzialità elegante di Sereni – poeta di soli quattro libri – qui non si perda, non venga compromesso da una mano troppo insistente: che cappelli e note, insomma, non appesantiscano troppo il corpo della poesia. Un rischio che qui, per quanto possibile, è evitato. In ogni caso può darsi stia cominciando, per Sereni, un capitolo diverso, un segmento nuovo della sua parabola: attorniato da lettori anche generazionalmente più vari (basti controllare l’ampia bibliografia allegata a questa edizione), dentro una cornice, una situazione che intanto è ormai, a tutti gli effetti, quella di un classico contemporaneo. Di un libro sempre più vicino, sempre più «in chiaro», e al contempo anche più estraneo, in certo senso meno «nostro»: un po’ più lontano dalla «vita fluttuante e mutevole» che Sereni continuamente inseguiva, che sentiva sfuggirgli.