Il cantautore torna per un grande concerto alla Scala di Milano. “ Forse l’ultimo”, dice E poi: “ Non mi piace quello che vedo oggi”
di Luca Valtorta
È ASTI tutto un dileguarsi di alberi, fattorie, fiumiciattoli, cespugli ma anche, inevitabilmente, case e persino centri commerciali. E poi ancora ponti, silos, prati e ancora alberi, alberi, alberi, scheletriti dal pur tardivo autunno. E un cielo che sa costantemente di pioggia forse anche quando c’è il sole, come adesso, che sporca di rosa nuvole solitarie anch’esse in viaggio.
Arrivando da Roma in treno già si capisce perché questa è zona dove “come piove bene sugli impermeabili”. Però se bastasse questo a fare un Paolo Conte, Asti ne sarebbe piena. E invece ce n’è uno e uno soltanto, riuscito a fare di una provincia un orizzonte così ampio che è quella stessa provincia a colonizzare gli immaginari più diversi alle più lontane e imprevedibili latitudini: Vienna, Brasile, Cuba, Messico, Parigi e ancor più in là. Migliaia e migliaia di chilometri e di tour che neanche Bartali. A raccontare per il mondo una provincia fatta di perdenti e di Mocambo, il locale metafora di tutti i fallimenti possibili che nell’epopea di Conte ritorna come un fantasma, forse triste, ma che sa di aver vissuto ed è disposto a pagare pegno. Eroi di un tempo, mondi lontanissimi. Sobrio palazzo con una porta di legno e una targa sul lato sinistro: “Avvocato Conte”, recita. «Lo gradisce un caffè?», chiede con gentilezza inusuale, alzandosi per stringere la mano, elegante come solo lui può, ma anche inaspettato con un paio di pantaloni ocra e un maglione a girocollo grigio scuro. Si risiede a una scrivania piccola e antica: «Questa è la casa di famiglia», spiega, «l’aveva fatta costruire nel ’30 mio nonno quando qui dopo la piazza c’erano solo campi, ma lui aveva già intuito che Asti sisarebbe espansa verso Nord».
Allora qui c’è proprio la memoria. Si sente?
«Oh sì, incombe eh, incombe. Mi guardano, mi controllano (ride)».
Com’è una giornata di Paolo Conte?
«Disegno, dipingo, ascolto molta musica classica, soprattutto alla sera, o qualche vecchio disco di jazz».
E suona immagino.
«Una volta suonavo tutti i giorni, adesso non più. Ho suonato così tanto… adesso preferisco fare le cose a cui ho potuto dedicare meno tempo».
Tra poco lo farà su un palco d’eccezione: il 19 febbraio è stato invitato a suonare alla Scala di Milano: è la prima volta che viene chiesto a un cantautore….
«È un grande onore, la Scala è uno dei teatri più importanti al mondo, universalmente considerato un tempio della musica. Per l’occasione realizzerò una scaletta speciale: sarà una sorpresa».
La Scala è famosa anche per un pubblico di persone competenti, in particolare i famosi “loggionisti”.
«Appassionati, impetuosi, gente che si riunisce a tavola e discute animatamente: un pubblico caldo con molte donne e giovani. Un tempo uno dei loggioni più severi era quello di Parma e poi veniva quello di Asti che, come si sa, è una città abbastanza chiusa che non si esprime molto.
Probabilmente era il retaggio di esser stata la città di Vittorio Alfieri con prime di spettacoli di livello internazionale: bisognerebbe proprio farla una storia dei loggioni, sarebbe interessante».
Se non sbaglio “Dal loggione” era proprio la canzone che lei aveva dedicato alla presunta “zia di Benigni”. Mi sembra fosse il premio Tenco dell’81… «Ah sì, certo, perché lui aveva fatto la canzone dedicata amia moglie, “A me piace la moglie di Paolo Conte” e così ho dovuto ribattere (ride)».
Tutto improvvisato al momento.
«Assolutamente: era una di quelle cose che succedevano al Tenco negli anni d’oro».
Ha risposto con una canzone bellissima piena di romanticismo e al tempo stesso d’ironia.
«Ho cercato di parare il colpo».
Anche perché c’erano molti significati in quel pezzo…
«Un pochino sì».
Il testo diceva : “Su, su dal loggione io ti osservo/ Bella/ Che tuo marito ne è superbo”: da lì con Benigni nacque un sodalizio e un’amicizia: vi vedete?
«Di persona non tantissimo, ci siamo però telefonati e scritti molto, soprattutto per motivi di enigmistica di cui siamo tutti e due appassionati ed esperti».
Sapevo di lei ma non di Benigni.
«Ci completiamo perché io sono più un autore, di rebus soprattutto e di crittografie, mentre lui è un solutore velocissimo. Una volta avevo creato un gioco molto difficile e dopo mezz’ora è arrivata la sua risposta.
L’enigmistica è un mondo interessantissimo in cui gli autori hanno nomi di battaglia come Maga Circe o Dragomanno. Una volta una signora mi ferma per strada e mi dice: “Sono la Maga Circe, facciamo due chiacchiere?”. A casa mia laSettimana Enigmistica è una presenza dai tempi della guerra, la compravano mio padre e prima di lui mio nonno. Mi ricordo da bambino mio fratello che ce l’aveva sempre in mano: ogni volta che arrivava era una piccola festa».
Che intelligenza ci vuole per risolvere rebus e affini?
«Non so se è intelligenza, di sicuro in chi crea giochi linguistici c’è una sorta di ossessione nell’incastrare lesillabe e da lì far venir fuori dei significati diversi, che poi il significato dell’enigma è il doppio senso. Ma ci sono anche cose meno a incastri e più mnemoniche, o anche, a volte, più fantasiose: le più difficili».
Conoscerà Bartezzaghi…
«Come no? Una volta gli avevo scritto una lettera per altri motivi con una frase finale che diceva: “Film blasfemo”.
Nella risposta sembrava non ci fosse nulla a riguardo, poi mi accorgo che dietro c’era la soluzione: “Proiezione offensiva di Chiesa”. Perfetta. Chiesa sarebbe il giocatore di calcio, non quello di adesso, ma suo padre Enrico che era già un grande giocatore».
Utilizza questo linguaggio anche nella composizione?
«Qualche volta l’ho usato. InSotto le stelle del jazz per esempio quando dice “non si capiva il motivo”, che significa anche “non si capiva il perché”».
C’è anche una citazione nel finale di questa sua passione: “Nel tempo fatto di attimi/ e settimane enigmistiche”. La bellezza dei testi sta anche nel fatto che spesso sono enigmatici. Per esempio, Gino Paoli, mi raccontava che “Il cielo in una stanza” parlava di un… orgasmo! E anche una delle sue canzoni più belle e più famose, “Azzurro”, si presta a diverse interpretazioni…
«Un po’ l’avevo intuito (ride)… No, Azzurro non ha questo tipo di retrosignificati, è molto più pudica».
C’è una cosa che mi chiedo da quando sono bambino a riguardo, ovvero quel verso pieno di poesia che dice: “Stanno innaffiando le tue rose/ il leone chissà dov’è”…
«Il protagonista si trova nel giardino di casa sua dove cerca di farsi compagnia con dei ricordi da bambino, l’oratorio, le domeniche ma si annoia e allora si immagina “un po’ di Africa in giardino/ tra l’oleandro e il baobab” ma lo disturbano e così il leone non appare».
Tra “stanno innaffiando le tue rose” e il “leone chissà dov’è” c’è però anche un senso di mistero che funziona a livello non razionale ma emotivo…
«Sì, certo. Non è per niente razionale: sono immagini. Le immagini, il paesaggio mi hanno sempre interessato molto anche dal punto di vista etnico: in Diavolo rosso, inGenova per noi, un certo paesaggio nasconde anche i suoi abitanti, il loro modo di essere».
Il “mugugno” genovese e…
«E la nostra solitudine della campagna astigiana, la pioggia, l’acqua verticale qui e quella orizzontale, il mare, là. Entrambi siamo un po’ selvatici e forse però riusciamo a comunicare proprio attraverso questa incapacità di comunicare. Un paradosso».
Con Paoli vi conoscete?
«Poco. Ci siamo incontrati in qualche trasmissione. Mi ricordo però una volta la faccia che aveva fatto al Tenco quando un intervistatore fece la fatidica domanda: “Ma voi cantautori siete anche dei poeti?”. Di solito tutti rispondevamo cose come: “Sono due arti diverse”, “La poesia ha le sue regole”, “La musica è un’altra cosa”, invece quella volta mi venne da rispondere : “Sì. Siamo dei poeti”. E lui fece una faccia come per dire: “Che coraggio che hai avuto” ma anche di contentezza che significava “Finalmente, diciamolo!”».
De Gregori si stizziva quando lo chiamavano poeta…
«Ma anch’io lo avevo detto tante volte, in effetti sono due arti diverse: con la poesia parti da un foglio bianco da riempire, con la musica invece hai degli appigli per far le rime e poi nella poesia sei solo, Con la musica hai a che fare con molta gente, gli stessi musicisti in primis e poi c’è?continua nelle pagine seguentif
Disegno, dipingo, ascolto molta musica classica, soprattutto alla sera, o qualche vecchio disco di jazz Una volta suonavo tutti i giorni, adesso non più Ho suonato così tanto… il pubblico. Però non si può nascondere che… comunque siamo dei poeti (ride)».