Avolte viene cerchiato di rosso un “perché”, oppure si sottolinea “sfinito dalle disgrazie”. È impossibile dare una definizione di quello straordinario esperimento che è Autoritrattiche esce per Quodlibet a firma di Tommaso Spazzini Villa. Nei fatti, il testo è Odissea di Omero, nella mitica traduzione di Rosa Calzecchi Onesti: ma è arricchito da segni, sottolineature, brevi commenti fino a diventare opera nell’opera, come solo l’arte partecipativa sa fare. Spazzini Villa è un artista milanese che vive a Roma: nel 2018, racconta nel volume (che include le postfazioni di Matteo Nucci e Saverio Verini), coinvolge 361 detenuti di diverse carceri italiane.

«Il progetto – racconta – è nato da un lavoro che inizialmente facevo senza coinvolgere altre persone. Sulla pagina di un testo sottolineavo alcune parole per fare emergere frasi nascoste, non immediatamente visibili se non fosse stato per il gesto che le metteva in luce. Per esempio, ho sottolineato sei diverse frasi su un canto del Purgatorio, per provare a vedere quante ne potessero emergere dal testo di Dante: di queste una sola è il mio autoritratto. Qualche anno fa a Milano ho partecipato a un Ted talk, occasione in cui ho conosciuto Cosima Buccoliero, allora direttrice del carcere di Bollate. Le ho proposto di fare un laboratorio all’interno dell’istituto chiedendo ai detenuti di sottolineare una frase per ogni pagina dell’Odissea».

Ma perché l’Odissea? «Perché per me è uno specchio prismatico che si rifrange in tante odissee minori, in altrettanti ritorni. È il poema della conoscenza conseguita attraverso il superamento degli ostacoli. È una condizione che viene imposta ad Odisseo, lui la soffre, deve costruire la sua pace, deve costruirsi la via del ritorno e impiega dieci anni per percorrere questa strada. È il libro del mare, l’archetipo di ogni futuro romanzo di avventura. Ed è anche il poema degli umili: il leale porcaro Eumeo, la fedele nutrice Euriplea, il bovaro Filezio. Mi sono chiesto come sia visto Odisseo da una persona privata della libertà, che vive lontano da casa e dalla famiglia. Al contrario di Achille, che è un personaggio unitario, di marmo e di luce, Odisseo è tanti, è eroe, mendicante, viaggiatore, marito, condottiero, padre, amante. È una mente variopinta, sinuosa, che ben si adatta alla caduta delle strutture sociali di oggi. È il poema degli archetipi, il testo che contiene i moti del nostro animo, quelli che pensiamo di essere gli unici a vivere. È come se qualcosa dentro di me si sciogliesse quando leggo di un eroe che li affronta con coraggio e pazienza».

Il progetto non si è svolto come una lettura condivisa: «Distribuivo ad ogni partecipante una sola pagina del testo omerico e su quella lui doveva lavorare. L’Odissea non è presa in considerazione per la sua struttura narrativa ma come insieme di immagini, segni, emozioni contenuti all’interno di una singola pagina, che diventa così un insieme di parole da cui estrarre quelle che più ci toccano, cercando di comporre una frase di senso compiuto. È un gesto di verità, non estetico. Non c’è nulla di automatico ed inconscio – è un lavoro lontano dall’approccio al testo dadaista. Quello di sottolineare è un gesto lento in cui chi legge si rispecchia nelle parole del testo, le cerchia, le sottolinea, le cancella, le ritrova andando lentamente a comporre un ritratto di sé, di ciò che quella pagina riflette e rispecchia di sé».

Al progetto hanno partecipato anche alcuni studenti, ed è interessante capire quali siano le parole scelte dall’uno e dall’altro gruppo. Intanto le più sottolineate sono “cuore” e “mare”, che diventano due grandi spazi di riflessione, due specchi in cui leggere il mondo emotivo. «L’acqua/di mare/è casa» ha sottolineato qualcuno. «Il cuore/lontano da te/gridava/forte» sottolinea qualcun altro. I detenuti si identificano più con Odisseo, distante da casa e dagli affetti. Nelle frasi che hanno sottolineato si rivolgono alle mogli e ai figli lontani, alla casa abbandonata. «Era un massacro/il/ricordo/dell’amore/lontano», «Mi hai donato/ figli bellissimi/e io/ così misero». Gli studenti invece parlano più ai padri e alle madri: «Scusa/madre/per/ogni giorno», «Da tempo/mi impedisce il cammino/è mio padre».

È un rito collettivo restituito, quello di Spazzini Villa: «L’Odissea nasce all’interno di una tradizione orale in cui aedi e rapsodi cantavano al popolo le gesta di eroi e di dei. Chi ascoltava ritrovava nelle loro parole gli archetipi dei propri moti d’animo – nostalgia, paura, ira, amore – e qualcosa andava sciogliendosi nella comprensione di non essere l’unico e il primo a vivere quei tormenti. È un testo collettivo in cui milioni di uomini, in migliaia di anni, hanno trovato e riconosciuto quel materiale altrimenti denso e informe che sono i moti del nostro animo, emozioni che con l’ascolto reiterato e ripetuto trova luogo e pace, sollievo e comprensione».

E quanto ne abbiamo bisogno? «Nell’ultimo secolo abbiamo visto sgretolarsi i momenti di condivisione profonda all’interno delle società in cui viviamo, e tra questi anche quelli dell’arte. Nel suo piccolo questo progetto ne è lo specchio. Ogni partecipante ha affrontato la pagina nell’intimità della sua solitudine. Io ho raccolto tutte le pagine dopo i loro interventi e ho ricomposto l’Odissea nella sua interezza così che il lettore si trovi di fronte a una coralità di voci interne, riflesse nelle parole di Omero. È una dimensione collettiva nata da momenti di solitudine. Durante un incontro al Carcere di Bollate una detenuta si è improvvisamente alzata e ha detto davanti a tutti “Questa pagina mi ha spiegato la vita, cioè la mia vita”. Io non ho fatto in tempo a chiedere cosa intendesse che lei ha continuato “Alla fine quando nasci è come quando sei all’inizio della pagina, hai ancora tutto davanti. Poi cominci a fare delle scelte, che ne implicano altre e altre ancora. E alla fine se hai fatto delle scelte di merda finisce che ti blocchi, come sono bloccata io qui dentro”».

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