Se la storia di Giovanna d’Arco non fosse vera bisognerebbe inventarla per capire il livello a cui può giungere la stupidità dell’uomo che ciclicamente si ripresenta di fronte al portone della storia.

Il mito della “pulzella di Orleans” – quale miglior slogan denigratorio si poteva inventare? – ha qualcosa di così profondamente archetipico che è già tutto nelle parole, è già tutto scritto lì, negli atti de Il processo di condanna di Giovanna d’Arco, a cura di Teresa Cremisi, che Marsilio riporta in libreria dopo molti anni dalla loro prima uscita, e lo fa al momento giusto.

Ma proprio di fronte alle carte, ai verbali e alle minuzie della condanna di Giovanna – e nonostante tutta l’arte, il cinema, il teatro che Jeanne ha ispirato – ci rendiamo conto che di lei in realtà non sappiamo nulla.

Scrive Cremisi: «Di questo personaggio complesso, eccezionale per i suoi tempi ed eccezionale in assoluto, storici e artisti hanno quasi sempre visto solo un lato, una faccetta del carattere. La “esagerazione” a senso unico che ne è derivata ha fatto sì che la figura di Giovanna assumesse ogni volta caratteri emblematici e fortemente deformati».

LE BUGIE DELLA STORIA

Giovanna, sottolinea Cremisi, non era la pastorella povera ma la figlia di un piccolo proprietario che raramente aveva pascolato le pecore; non era particolarmente ignorante, ma semplicemente simile a chiunque altro nel Quattrocento non fosse prete o leguleio.

Ciò non le impedisce di guardare oltre al podere di Domrémy dove è cresciuta, dove vicino a un albero faceva ghirlande e sentiva “le voci”, e farsi accompagnare da uno zio a Vaucouleurs, indossare abiti maschili e, il 25 febbraio 1429, farsi ricevere dal re a Chinon.

In ultimo, Giovanna non è il prototipo della candidata alla beatificazione, come accadrà poi nel 1920, quando diventa la patrona della Francia. «Leggendo i documenti di questo processo risulta difficilissimo sovrapporre all’immagine di questa ragazza, di volta in volta insolente, caparbia, impaurita, minacciosa, orgogliosa, scettica, sprovveduta, abile, battagliera, eroica, l’immagine di una santa» scrive Cremisi, aggiungendo: «Giovanna infrange con animo intrepido le leggi della chiesa e, come se non bastasse, afferma che lo fa perché così le è stato ordinato dal Buon Dio: come tutto questo si possa conciliare con la santità è misterioso».

«UNA RAGAZZA IN ARMI»

Ma chi era Giovanna e perché muore? Prima metà del Quattrocento, territorio francese, è in corso la “guerra dei cent’anni”. Agli inglesi non basta la loro isola, vogliono anche la Francia, con la complicità del duca di Borgogna. Ma la Francia ha un suo re, Carlo VII, il quale però governa solo una piccola corte (è chiamato “il re di Bourges”).

È la vecchia storia di un territorio conteso; l’eterna, estenuante guerra tra chi vuole appropriarsi della casa altrui e chi difende la propria sovranità. Vicenda attualissima: l’Europa, ancora una volta, ce ne regala oggi un esempio sfolgorante.

Ed ecco che al cospetto di Carlo VII arriva la ragazza: dice di essere inviata da Dio per guidare la riscossa dei francesi; ha delle prove a dimostrarlo. Il re le crede.

Il 29 aprile 1429 Giovanna e il suo piccolo esercito entrano a Orléans e spezzano l’assedio degli inglesi. Nei mesi successivi molte altre città saranno conquistate, finché il 16 luglio Carlo VII è incoronato a Reims. Ma la guerra continua, mica gli inglesi si sono rassegnati a quella incoronazione! E hanno molti alleati sul territorio, tipo Giovanni di Lussemburgo.

Giovanna torna a combattere e nell’estate del 1430 è catturata e messa agli arresti. Alla fine di quell’anno, il duca di Borgogna la vende agli inglesi, che la fanno processare da un tribunale ecclesiastico. Chi è questa ragazza vestita da uomo con i capelli rasati sopra le orecchie, che sente le voci di santa Caterina e santa Margherita (e pure san Michele) e si fa baciare le mani dal popolo? Non sarà per caso un’eretica? Il 30 maggio 1431 è arsa viva a Rouen. Venticinque anni dopo, nel 1456, è riabilitata dalla chiesa.

UN PROCESSO POLITICO

Letti adesso, gli atti del processo sono una clamorosa accusa verso i suoi inquisitori, un colossale monumento all’ottusità. Ma anche, attraverso le sue parole, il ritratto più veritiero e palpitante della ragazza.

Cremisi ha trascritto fedelmente dal verbale latino del processo, e da altre due fonti pervenute. Il dibattimento dura diversi giorni, durante i quali gli inquisitori svolgono laconicamente il loro mestiere.

«A nessuno, né ai giudici né a Giovanna stessa, sfugge che questo processo “in materia di fede” è esclusivamente un processo politico, che si basa su una equazione elementare: affinché Enrico VI di Lancaster, ancora un bambino, diventi legittimamente e saldamente erede della corona di Francia oltre che di quella inglese, bisogna distruggere quello che Giovanna ha fatto e, in particolare, la consacrazione di Carlo VII a Reims».

Dietro all’ossessione dei giudici per i capelli, per l’abito, per le “voci” e le apparizioni delle sue sante protettrici, non c’è altro che la malafede di un finale già scritto fin dalle prime battute: «Piacque alla Divina Provvidenza che una donna, chiamata la Pulzella, fosse catturata da valorosi uomini d’arme sul territorio della nostra diocesi e giurisdizione».

Una donna «dimentica della dignità conveniente al suo sesso, di ogni vergogna e di ogni femminile pudore» che, scrivono gli inquisitori, «indossava, per una singolare e mostruosa depravazione, abiti insoliti, adatti solo agli uomini». Il primo segno dell’eterodossia è dunque l’abito, «mostruosa depravazione». Che, attenzione alle parole, è della donna, mentre gli uomini sono «valorosi».

Decine e decine di volte, nei giorni seguenti, Giovanna sarà sollecitata a giustificare la decisione di vestirsi in quel modo e quando il giudice le chiede: «Accetteresti di indossare un abito femminile?» lei risponde: «Datemene uno e che me ne possa andare! Altrimenti no. Mi accontento di quello che porto, visto che a Dio piace che lo porti!».

Scrive Cremisi a questo proposito: «Dirà più volte davanti al tribunale che “l’abito non ha importanza”, ma lei stessa attribuisce al suo abito un’importanza sempre crescente fino a farne un simbolo irrinunciabile: difendere con intransigenza il suo modo di vestire e di acconciarsi (i capelli corti all’altezza delle orecchie) finisce per coincidere con la difesa della sua stessa missione, con la difesa del suo operato».

Cosa significa? Che il più grande reato di Giovanna dinnanzi alla legge di quei magistrati che parlano in nome di Dio è la sua totale incomprensibilità. Non la capiscono. E non la capiscono perché lei ha capito, al contrario di loro, l’importanza del simbolo. Più cercano di convincerla di essere nel torto, più lei parla una lingua per loro disorientante: «Mi accontento».

A loro non sembra vero e insistono: «Credi di far bene a vestirti da uomo?». E lei: «Tutto ciò che ho fatto per Dio, penso sia stato ben fatto e mi aspetto malleveria e consolazione».

Consolazione? Probabilmente, quei frati, si saranno guardati in faccia sbalorditi. Ieri Jeanne, oggi Arsa Panahi, Hadis Najafi, Nika Shakarami e le altre martiri di Teheran. Ecco i reati: l’abito, i capelli, l’autorità contestata, il coraggio (o forse il candore?), la fede – ma quale fede? quella imposta o quella autentica? – e infine il corpo: sul corpo si consuma l’olocausto finale.

Non si può non pensare a queste ragazze a cui viene contestato il fatto di mostrare i capelli, e per questo uccise. La normalità come intollerabile colpa: il fatto più sconvolgente è che la mattina in cui Giovanna salì sul rogo ritrattò tutto, fu presa dal terrore.

Scrive Cremisi di lei: «Si è autorizzati a pensarlo, visse quegli eventi come avrebbe vissuto un’altra vita qualsiasi, altre vicende più consuete e modeste: con coerenza e contraddizioni, con paura e coraggio, con durezza e passione e, soprattutto, con la caparbia certezza, quella delle creature destinate ai roghi d’ogni specie, che la distinzione fra bene e male è lampante e che ciò che è bene va fatto a ogni costo». Sono passati più di cinquecento anni e il corpo di quella ragazza diciannovenne brucia ancora.