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Protestavano contro le tasse, contro l’usura praticata dalle banche, contro le politiche agricole, contro la concorrenza sleale dei prodotti d’importazione. E pure contro il maltempo. Piangevano miseria. Si lamentavano di essere al fallimento. Chiedevano sussidi. Inscenavano proteste clamorose. Ce l’avevano con la burocrazia, i regolamenti farraginosi, con gli esattori, con la giustizia che gli dava torto, con la stampa, con il grande capitale internazionale, ma soprattutto con gli ebrei e la repubblica “giudaica” di Weimar. Rote Judenrepublik, repubblica rossa degli ebrei, la definivano. In breve: ce l’avevano con il sistema democratico, la più avanzata democrazia nell’Europa di allora. Curioso: dalle loro parti, nelle campagne, di ebrei non se ne vedevano proprio. Tutt’al più qualche bottegaio in città. Gli bastava il sentito dire, l’immagine che se n’erano fatta, che gli veniva conculcata. Con la sinistra socialdemocratica ce l’avevano perché era stata al governo. Con la sinistra comunista probabilmente perché gli evocava espropriazioni. Non volevano certo fare la fine dei kulaki in Russia. Con i giornali, tutti i giornali, ce l’avevano perché li sentivano estranei, incomprensibili, ostili.
Il governo gli concesse quasi tutto quel che chiedevano. Ma non bastò a convincerli. Quelli non fermarono proteste, cortei, assalti ai municipi, attentati dinamitardi, sassaiole contro le forze dell’ordine e impiccagioni in effigie di politici invisi. Il partito di Hitler fu il maggior beneficiario della protesta. Anche se all’inizio, ansiosi di accreditare una propria immagine legalitaria, anziché sovversiva, ne avevano preso le distanze. Hitler aveva inizialmente proibito ai membri del partito di far parte dei movimenti violenti e bombaroli. Ma poi i nazisti avevano capito meglio di tutti come lisciargli il pelo e usarli. C’era un vuoto politico. Lo occuparono. A differenza della sinistra, i nazisti parlavano il loro linguaggio. Si facevano capire benissimo.
Ecco un discorso del gauleiter(corrispondente al federale del fascismo) dello Schleswig, durante la campagna per le elezioni parlamentari del 1928: “Tutte le banche sono in mani ebraiche. No, noi non li vogliamo impiccare, gli ebrei. Ma li si potrebbe utilizzare a coltivare le terre incolte. Gli ebrei che sono entrati in Germania dal 1914 in poi vanno espulsi e deportati, gli altri vanno privati dei diritti civili. Solo uno stato tedesco del popolo (Volkstaat) può farlo. Ecco l’obiettivo del nazional socialismo”. Vi evoca qualcosa di sentito di recente?
I nazisti erano i meglio organizzati. Sgominarono in men che non si dica le frange che gli facevano concorrenza a destra. C’era chi era più nazionalista (oggi si direbbe sovranista) dei nazisti, chi ce l’aveva in modo ancora più viscerale con la sinistra “di governo”, con il “sistema Weimar” (non è stata la contestazione del ‘68 a inventare il termine babau “sistema”), con i partiti e i politici “corrotti” e, naturalmente, con gli ebrei. E’ nelle zone rurali che si affermarono elettoralmente i nazionalsocialisti. Molto prima che a Berlino o nelle altre città. La vicina Amburgo dei portuali era rimasta rossa quasi sino alla fine.
Del movimento di protesta dei contadini che sconvolse la Germania a cavallo tra anni 20 e 30 parla il primo romanzo di Hans Fallada, pubblicato ne 1931, Bauern, Bonzen und Bomben. E’ stato tradotto in italiano come Contadini, bonzi e bombe (e in inglese in genere come A Small Circus, dal titolo del prologo nell’originale). I contadini sono i piccoli allevatori della Pomerania, che ogni primavera si indebitano con le banche e comprano vitelli per ingrassarli, e poi rivenderli. Ma rischiano il fallimento se il prezzo della carne scende, se aumenta il prezzo del mangime, se i grossisti li prendono per il collo, se gli esattori del fisco non gli lasciano respiro. Non c’erano all’epoca trattori, quindi il prezzo del gasolio non fa parte delle lamentele. Così come non ci sono ancora norme per la tutela dell’ambiente e non ci sono ancora politiche agricole comunitarie (ma ci sono le importazioni a più basso costo dal resto dell’Europa che mettono in ginocchio gli agricoltori tedeschi). I bonzi, i “pezzi grossi”, sono i politici locali e nazionali, i funzionari dei partiti e dei sindacati di sinistra, il sindaco socialdemocratico. Le bombe sono quelle che le frange più estreme del movimento dei contadini fanno scoppiare contro le sedi istituzionali, soprattutto sedi dell’agenzia delle entrate. Ci sono manifestazioni violente, con morti e feriti. I contadini inferociti, istigati da due capipopolo, entrambi di estrema destra, ultrà nazionalisti, populisti sfegatati, ma in concorrenza tra di loro su chi la spara più grossa, assediano e bloccano la città. I giornali soffiano sul fuoco. Il circo è un malcapitato tendone di zingari itineranti (altro capro espiatorio che finirà nelle camere a gas assieme agli ebrei), che compare nell’esordio e alla fine del romanzo. Il giornale locale li straccia con una recensione al vetriolo. La loro colpa, oltre che essere zingari, quindi “stranieri” per definizione, è aver rifiutato di pagare il pizzo alla stampa, in forma di inserzione pubblicitaria.
Il romanzo si riferisce ad avvenimenti reali. Alle agitazioni di contadini che sconvolsero lo Schleswig-Holstein, Land dell’estremo nord, nell’agosto 1929. Hans Fallada, al secolo Rudolf Ditzen, sa di cosa parla. Era stato assunto come cronista dal General-Anzeiger, un giornale locale. Aveva seguito la marcia di migliaia di allevatori, con le loro bestie e carrettate di letame sulla capitale regionale Neumünster (nel romanzo la città ha un nome fittizio: Altholm), gli attentati dinamitardi nei mesi seguenti. Ha seguito, e resocontato, prima i comizi infuocati, poi il processo a carico dei promotori della rivolta, con nomi di fantasia nel romanzo, ma personaggi con nome e cognome nella realtà: Claus Heim e Wilhelm Hamkens, legati a filo doppio alle organizzazioni paramilitari di estrema destra, antisemiti rabbiosi, fanatici teorici della purezza di “sangue e terra”. Hamkens, il più moderato dei due, era stato condannato a quattro settimane di prigione per essersi rifiutato di pagare le tasse. Nei comizi tuonava contro “il sistema con il quale i giudei dissanguano il popolo”, “il grande capitale internazionale che ha ridotto in schiavitù i popoli dell’Europa”, “la stampa giudaica che sta inoculando il popolo tedesco con le sue menzogne”. Due delle associazioni in cui erano organizzati i contadini esitavano a partecipare a un movimento che rischiava di degenerare. La Lega rurale, più combattiva e più di destra, riuscì a mobilitare 140.000 contadini, che marciando a piedi, o a cavallo, con vacche e famiglie, cinsero d’assedio le città.
Da giovane cronista Fallada è addentro alle vicende. Sa delle manovre per il controllo del movimento (anzi i movimenti, erano divisi quanto i promotori della rivolta dei trattori). E’ un insider. Sa molte cose su come funzionano, si comprano e si vendono giornali, si fanno rigare dritto direttori di giornale e giornalisti. Tra i protagonisti del romanzo c’è un editore furbissimo che possiede un giornale di destra e compra in segreto anche un giornale di sinistra. I giornali gli interessano per far soldi, acquisire pubblicità, esercitare pressioni, anzi veri e propri ricatti sulla politica, e sui politici, non per quello che pubblicano. E’ anche un strozzino che cerca di dimezzare lo stipendio dei suoi giornalisti, a cominciare da quello del cronista protagonista del romanzo con il quale il cronista Ditzen evidentemente si identifica. E’ lui, l’editore carogna, a pronunciare la battuta che avrebbe valso a Fallada l’accusa di antisemitismo. “Ma no, non sono affatto un ebreo. Non voglio affamarti. Ti vengo incontro, facciamo 300 marchi al mese [anziché i 500 che il giornalista con cui sta trattando lo stipendio vorrebbe mantenere] …”.
Fallada ha uno stile tutto suo. Racconta quel che sente dire. Come se registrasse le conversazioni orecchiate. Due terzi di questo romanzo sono dialoghi. Con tutta l’autenticità del parlato e dello slang, che lo rende anche difficilmente traducibile. Non prende parti, non fa sentire la propria voce, non fa sovrastare le proprie opinioni politiche a quel che dicono i suoi protagonisti. Non simpatizza né coi contadini, né con chi li istiga alla ribellione. Tanto meno simpatizza coi nazisti, che nelle quasi 600 pagine del romanzo quasi neanche fanno capolino. E’ severo con i socialdemocratici di governo, maneggioni e bugiardi, così come lo è con i comunisti, fanatici seguaci della linea dettata da Mosca. Nella Germania degli anni 20 e 30 Spd e Kpd, socialisti e comunisti, erano come cani e gatti, peggio che Schlein e Conte. Ancora alle ultime elezioni prima che Hitler divenisse cancelliere avevano insieme più voti di quelli del partito nazista. Nello Schleswig-Holstein i socialisti coalizzati avevano quasi il 50 per cento dei voti, prima che questo divenisse il primo Land a maggioranza assoluta nazionalsocialista.
Il sindaco socialdemocratico di Altholm, politico consumato, è una delle poche figure tutto sommato perbene del romanzo. E’ attaccato al potere, fa i salti mortali per non perderlo. Compreso il rinunciare ai propri ideali (ammesso che ne abbia ancora). Ma in fin dei conti è uno che cerca di fare il suo mestiere, gestire alla meglio la cosa pubblica. Conosce i meccanismi, le trappole, le miserie della politica. Fedalla all’epoca era di sinistra, era iscritto al Partito socialdemocratico. Oltre che a fare praticantato nei giornali aveva lavorato per il sindaco di Neumünster, quello vero. Evidentemente è disgustato sia dalla politica che dal giornalismo. Sceglie la posizione più comoda, fa l’impolitico, così come impolitico si proclamava Thomas Mann.
I contemporanei lo subissarono di lodi, e anche critiche feroci. Da sinistra come da destra. Kurt Tucholsky definì il libro, da sinistra, come “il miglior trattato possibile sulla politica tedesca”. Ma ancora più da sinistra, Karl Wittfogel lo bollò come “un romanzo contadino fascista”. Il futuro ministro della Propaganda del Reich, Joseph Goebbels, notò che era “scritto bene, malgrado sia pubblicato da una casa editrice di sinistra” (Rowohlt, che sarebbe poi stata costretta a chiudere dai nazisti al governo). Fallada dal canto suo avrebbe spiegato: “Non era mia intenzione scrivere un romanzo sugli agricoltori. Non volevo che i lettori si dicessero, tra sé e sé: ‘poveri contadini’. Era semmai per fargli dire: ‘povera Germania’”.
Povera Germania, povera Italia, povera Europa. Qualche anno fa avevo scritto un pamphlet politico: Sindrome 1933, pubblicato da Feltrinelli (del maggio 2019 la prima edizione). Proponeva una serie di analogie tra l’anno in cui venne fatto cancelliere Hitler e quel che raccontano le cronache dei giorni nostri. In particolare ricordavo che i nazisti non erano andati al potere con un colpo di stato ma dopo una serie di scontri elettorali ravvicinati, competizioni perfettamente democratiche. Salvo arrogarsi tutti i poteri poco dopo. Con un voto in Parlamento, e tanto di referendum plebiscitario. Che anche Hitler aveva il suo Salvini come alleato nella coalizione del suo governo: il leader ultranazionalista e proprietario di metà dei giornali della Germania, Alfred Hugenberg, più violento, più antisemita e più sovranista di lui. Ma lo fece fuori, lui e i suoi media, in quattro e quattr’otto.
A risfogliare quel saggio sono sconcertato. Volevo essere scaramantico. E invece scopro con un po’ di sgomento di essere stato profetico. Il che mi mette a disagio, perché so bene quanto i profeti, da Cassandra agli insopportabili e lamentosi profeti delle Bibbia di Israele, possano risultare fastidiosi, anzi odiati. Non si tratta di quanto è successo nel frattempo. Ma di che potrebbe succedere in un futuro molto prossimo. Che so: Trump di nuovo presidente degli Stati uniti, l’Europa che si sfascia sotto le martellate di una destra gretta, populista, sovranista, cattiva, intollerante a critiche e differenze, che ce l’ha con gli immigrati e tutti i diversi, esattamente come la destra tedesca (ma anche francese, britannica, americana) del secolo scorso ce l’aveva con gli ebrei e gli handicappati.
I contadini che protestano avranno anche le loro ragioni per essere arrabbiati. Quello che allarma sono invece le ragioni per cui la rivolta viene fomentata, incoraggiata, indirizzata, amplificata, strumentalizzata. C’è un filo nero che tiene insieme i gilet gialli, le barricate francesi per continuare a potersi già pensionare a 62 anni, quelli che danno la caccia agli immigrati clandestini, o hanno dato l’assalto al Campidoglio di Washington, l’agitazione dei no vax, il “boia chi molla” dei tassisti romani, i balneari, l’universo sterminato delle fake news e farneticazioni complottiste, l’antipolitica dei forconi, le imprecazioni contro tasse e multe, e i nuovi squadrismi anti-ecologici.
Dargliela già vinta? Forse non ancora. Per restare alla rivolta dei trattori, questo 2024 era cominciato in modo terrificante proprio in Germania, con un tentato linciaggio, da parte di una masnada di agricoltori, del ministro dell’Economia Habeck che al ritorno dalle vacanze stava sbarcando da un traghetto a Schlüttsiel (proprio nello Schleswig, al confine con la Danimarca). Poi è sopraggiunta una piccola nota di ottimismo: nelle ultime elezioni nelle regioni rurali in cui c’è stata la protesta più violenta in Germania in queste settimane (in Turingia, dove si è appena votato, e prima ancora nel fatidico Schleswig-Holstein) sono anche quelle in cui Alternative für Deutschland, Afd – il partito post-nazista, che era sicuro di stravincere dopo aver fatto campagna per l’uscita dall’Unione europea e per l’esplosione immediata di tutti gli immigrati – è stato sconfitta da una coalizione tra democristiani, liberali, socialisti. Un libro di Volker Ullrich fresco di stampa, in testa alla classifica dei bestseller del New York Times, racconta per filo e per segno come dal 1923 in poi erano riusciti a tenere a bada uno dopo l’altro i golpisti, la destra estrema, l’esercito in mezzo alla più catastrofica inflazione della storia e a una guerra civile strisciante. Si intitola Germany 1923: Hyperinflation, Hitler’s Putsch, and Democracy in Crisis (Liveright 2023). La democrazia di Weimar aveva retto grazie a personalità che sapevano fare politica, a una Große Koalition tra sinistra e centro moderato. Fossero riusciti a farlo anche nel 1933, non ci sarebbe stato Hitler.