Fra le numerose problematiche del Partito democratico, vecchie, fin dall’origine, e recenti, ma non nuovissime, presentatesi in corso d’opera, c’è quella del suo essere partito, del suo modello.

Nella campagna – che è molto sbagliato definire “primarie” – per l’elezione del segretario, nessuno dei contendenti, coperti e scoperti, ha finora fatto qualche cenno significativo del modo con il quale il Pd dovrà (ri)strutturarsi.

Già, l’argomento non è affatto trascinante, sexy, ma forse potrebbe diventarlo. Mi pare cruciale proprio per riuscire a mettere dirigenti e rappresentanti a tutti i livelli a contatto con gli iscritti e con i simpatizzanti. Allora, invece di limitarsi saccentemente a affermare che gli elettori sono (diventati) volubili, cambiano spesso opinione e voto, fenomeno che riguarda al massimo un terzo dell’elettorato, gran parte dei cambiamenti avvenendo nella stessa area politica fra partiti limitrofi(ssimi), il segretario si porrà il compito non soltanto di trattenerli, ma anche di andare a cercarli.

UN COMPITO ABBANDONATO

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Un tempo, ben prima che lo dicessero i comunisti, neanche tutti, il grande Maurice Duverger sostenne che compito dei migliori fra i partiti era quello di trasformare i simpatizzanti in iscritti e gli iscritti in attivisti. Non è facile dire quando il compito fu silenziosamente abbandonato dai dirigenti del Pds e Ds.

Sappiamo che il reclutamento democristiano stava solidamente nelle mani dei capi corrente per i quali il numero degli iscritti (alla corrente) era il più potente strumento al tavolo dei negoziati per l’attribuzione di qualsiasi carica: di partito, nelle amministrazioni, al governo. Qualcosa del genere è rimasto anche nel Pd, poco virtuosamente esercitato dai leader delle “sensibilità” e mai contrastato dallo stesso segretario che preferisce accontentare i “sensibili” che lo sostengono. Naturalmente, sarebbe/sarà molto difficile per chi diventerà segretario/a del partito combattere alcune pratiche deteriori già fortemente consolidate.

IL SIGNIFICATO DI RADICAMENTO

Potrebbe cominciare a chiarire a coloro che andranno ai cosiddetti gazebo che vuole radicare il partito sul territorio e che cercherà di collocare le sedi, i circoli, non nelle zone, comunque, pochissime, dove il partito è elettoralmente forte, ma dove c’è maggiore disagio sociale e minore presenza di associazioni dei più vari tipi. Lo slogan potrebbe essere: «Fuori dalla Ztl dentro le periferie» (non solo geografiche).

Lì, gli iscritti e i dirigenti instaureranno relazioni operative –  altro che disintermediazione! – con le associazioni esistenti, faranno “battaglie” comuni, tenteranno di portare cultura politica.

Se, come disse un grande speaker democratico della Camera dei rappresentanti Usa, all politics is local politics, il radicamento territoriale porterà molti buoni frutti: capire meglio il sentiment di quegli elettori, individuare chi ha voglia di politica e ha talento, favorire la crescita sociale dei più bravi, dare migliore rappresentanza ai territori.

Certo, nessuna rappresentanza politica del Pd diventerà migliore se continuerà la deprecabile pratica di paracadutare candidati/e che poi non fanno politica sul territorio e non possono essere portatori delle esigenze neanche dei loro elettori che non conoscono e dai quali non sono conosciuti (e che lasceranno per andarsene in un altro collegio sicuro, se ne rimarranno, senza mai rendere conto di quel che hanno fatto, non fatto, fatto male).

GRAMSCI È MORTO, MA IL SUO PENSIERO RESTA

In coda sta il mio leitmotiv: di quale cultura politica deve dotarsi il Partito democratico? Gramsci, direbbero i sostenitori della cancel culture, è un uomo bianco morto, ma forse il suo pensiero su quanto importante è la/una cultura per acquisire consenso mantiene validità. Caro/a futuro segretario/a, prima che sulle bollette, esprimiti su una visione di partito.