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Introdotto in Germania dal governo Merkel, il salario minimo è in costante aggiornamento. Partito nel 2015 da 8,50 euro l’ora, viene rivisto ogni due anni circa, e ha raggiunto, nell’ottobre del 2022, i 12 euro per espressa volontà del governo della coalizione “semaforo”. Allo scopo di stabilire il livello del salario minimo, è stata predisposta un’apposita commissione, composta da rappresentanti dei lavoratori, rappresentanti dei datori di lavoro ed esperti. Ora, a soli sei mesi dal suo ultimo innalzamento, si fa sempre più concreta la prospettiva di un ulteriore adeguamento a 14 euro nel corso del corrente anno. Stefan Körzell della Dgb, la Confederazione dei sindacati tedeschi – la maggiore della Germania, che riunisce e rappresenta otto federazioni sindacali –, e membro della commissione, ha dichiarato: “L’inflazione si sta pappando l’ultimo aumento del salario minimo. Tutti i dati mostrano quanto gli aumenti per l’energia e i generi alimentari stiano colpendo duramente la popolazione attiva – e questo è particolarmente vero per le persone che lavorano per il salario minimo e hanno un reddito basso”.
È da oltre un mese che si è accesa la disputa: le organizzazioni sociali hanno chiesto un consistente aumento, intorno ai 14 euro e oltre, mentre i datori di lavoro hanno messo in guardia da richieste che prospettino il raggiungimento di “livelli irrealistici”. Non è stato solo il sindacato, che ultimamente si è fatto sentire con forza con una serie di scioperi, a porre la questione, ma anche il ministro socialdemocratico del Lavoro, Hubertus Heil, che ha dichiarato, il 9 aprile scorso, in un’intervista rilasciata al quotidiano “Bild am Sonntag”, che è necessario programmare un ulteriore aumento. Il ministro prevede un aumento significativo del salario minimo per il gennaio del 2024. L’esponente della Spd ha fatto riferimento al persistere di un’alta inflazione e agli “aumenti previsti dai contratti collettivi, che si rifletteranno nel prossimo aumento del salario minimo”. A giugno, la commissione gli presenterà dunque una proposta.
Le dichiarazioni del ministro del Lavoro hanno immediatamente suscitato un vespaio: il vice-leader dei liberali, Wolfgang Kubicki, ha dichiarato al quotidiano “Funke-Mediengruppe” di avere inteso le dichiarazioni di Heil non come una richiesta, ma come un’anticipazione, e di ritenere deplorevole il fatto che un ministro intervenga pubblicamente sulla questione: “Si può avere l’impressione che quello che doveva essere il vero scopo della istituzione di una commissione per il salario minimo, ovvero tenere le richieste di tipo politico fuori dal dibattito, venga ora minato dallo stesso governo federale”.
La Confederazione delle associazioni tedesche dei datori di lavoro (Bda) ha criticato aspramente le dichiarazioni del ministro Heil: “Pare quasi che la fissazione dei salari da parte dello Stato, invece che attraverso la politica di contrattazione collettiva, sia diventata la linea guida del ministero del Lavoro” – ha dichiarato il direttore generale della Bda, Steffen Kampeter. Il presidente del gruppo parlamentare Cdu-Csu al Bundestag, Thorsten Frei, ha dichiarato che è irritante che il ministro del Lavoro si esprima pubblicamente in un momento così delicato. “In ogni caso, una determinazione politica dei salari è sbagliata” – ha detto. La leader della Linke, Janine Wissler, ha chiesto a Heil di aumentare immediatamente il salario minimo per legge ad almeno 13 euro. Sostenendo che “alla luce dell’esplosione dei prezzi, il ministro non deve aspettare la commissione per il salario minimo per agire”.
I dati del resto parlano chiaro: l’indice dei prezzi al consumo ha raggiunto un picco del 10,4% su base annua, lo scorso ottobre, per poi attestarsi intorno al 7,5% a marzo. I principali istituti economici del Paese stimano che l’inflazione, nella migliore delle ipotesi, non scenderà al di sotto del 6% su base annua: un dato ancora molto elevato e con un impatto rilevante sui livelli di vita. D’altro canto, sono parecchi i ricercatori che affermano che sia anche economicamente sensato rafforzare il potere d’acquisto per stabilizzare la domanda interna e consolidare un’economia tedesca fragilizzata dalla guerra. La nuova direttiva europea sui salari minimi prevede, inoltre, che la commissione tenga conto dell’andamento del potere d’acquisto nella prossima riunione di giugno. Tra l’altro, la medesima direttiva prevede un salario minimo pari ad almeno il 60% del salario medio.
Un dibattito, questo tedesco, che visto dall’Italia appare quasi surreale, dato l’immobilismo del sindacato e la completa scomparsa della questione salariale dall’agenda politica. Va anche ricordato che, nella seduta del 30 novembre 2022, è stata approvata dalla Camera dei deputati una mozione che dice “no” alla introduzione del salario minimo. Un anno fa era solo la sinistra di Potere al popolo a fare campagna elettorale per il salario minimo a dieci euro… che appariva già una richiesta utopistica. Il 15 marzo 2023, durante il “question time” alla Camera, a un’interrogazione da parte di Elly Schlein, Giorgia Meloni ha ribadito il “no” al salario minimo in Italia. Secondo la presidente del Consiglio, in un contesto come quello italiano, caratterizzato da una elevata copertura della contrattazione collettiva e da un elevato tasso di lavoro irregolare, la soluzione non è la fissazione di un salario minimo legale.
Di concerto con Meloni, una certa stampa nostrana insiste sul fatto che i salari italiani sarebbero “troppo alti”, ignorando bellamente la circostanza che siamo l’unico Paese europeo in cui, negli ultimi tre decenni, sono calati anche in termini assoluti. La distanza abissale dalla situazione tedesca non può non colpire, dato che Italia e Germania hanno un livello dei prezzi pressoché identico e filiere produttive parecchio integrate. Lo scarto, ormai enorme, tra le retribuzioni nei due Paesi è dovuto al fatto che le imprese italiane si sono abituate a “competere” sui mercati internazionali agendo sulla compressione del salario e sull’aumento delle ore lavorate, non sulla innovazione. Tutti gli altri costi di impresa, infatti – energia, materie prime, semilavorati –, hanno un prezzo internazionale più o meno analogo.
Le imprese italiane risparmiano dunque sugli investimenti, potendo contare su salari sempre più bassi. Ma a un certo punto, per quanto possa essere basso il costo del lavoro, la “produttività” di un sistema industriale, che innova costantemente le sue tecnologie produttive, sopravanza comunque quella di chi si limita a intensificare l’orario di lavoro e a strozzare le retribuzioni. La spirale salariale ribassista non può durare per sempre, con le famiglie già allo stremo per inflazione e bollette. I costi sociali di queste scelte sono evidenti, in termini di impoverimento e di crescita dell’esclusione. Non è difficile immaginare che, vista la prolungata e deliberata assenza di politiche al riguardo, prima o poi qualcuno presenterà il conto. Ma per il momento non si muove foglia; come recitava la folle canzoncina francese, tout va très bien Madame la Marquise.