Come spesso accade, le decisioni mirate a modificare il sistema pubblico di istruzione arrivano d’estate, a scuola semivuote, quando l’attenzione è rivolta solo alla maturità. Lunedì 24 giugno a Milano è nata la Fondazione per la scuola italiana, un ente no-profit interamente finanziato da privati, che opererà con il ministero «per recepire le esigenze territoriali e ottimizzare l’allocazione di risorse, attraverso progetti e bandi nazionali». Tra i sovvenzionatori figurano a oggi Unicredit, Banco Bpm, Enel Italia, Leonardo e Autostrade per l’Italia.

L’obiettivo è raccogliere 50 milioni di euro entro il 2029, da investire «a supporto delle scuole da Nord a Sud, consolidando il dialogo virtuoso tra pubblico e privato nei settori produttivi in cui più forte è il fabbisogno di competenze professionali».

Il ministro Giuseppe Valditara ha parlato di «grande alleanza tra pubblico e privato» per rendere il sistema scolastico «sempre più competitivo». Gli altri firmatari usano un lessico neoliberista: «Sviluppo delle competenze», «valorizzare l’eccellenza», «capitale umano».

«ELEMOSINA DI STATO»

Tuttavia, si tratta di pochi spiccioli: 50 milioni rappresentano lo 0,1 per mille del finanziamento pubblico, in un paese che investe nella scuola appena il 4,2 per cento del Pil (media Ocse del 5,1 per cento) e dove anche il contributo dei privati, pari allo 0,5 per cento delle spese totali, è assai modesto (media Ocse del 2 per cento).

Ha ragione Gianna Fracassi, segretaria generale della Flc Cgil, quando parla di «un’elemosina di stato», elargita dagli stessi soggetti «che si sono opposti alle tasse sugli extraprofitti», quando invece le urgenze sono aumentare di almeno un punto di Pil l’investimento pubblico e adeguare gli stipendi degli insegnanti agli standard europei.

L’insignificanza dell’impatto concreto non deve far trascurare la rilevanza sul piano simbolico. Prosegue lo smantellamento della scuola della Costituzione, orientata a promuovere sviluppo della persona, cittadinanza, benessere e crescita collettivi, a vantaggio di un’idea orientata a performatività e individualismo.

Il processo non è una peculiarità italiana: a fine anni Ottanta, in seno all’Ocse, il concetto di «educazione permanente» sviluppato dall’Unesco è stato sostituito da quello di «apprendimento permanente». Al centro non c’è più la collettività ma l’individuo, a cui il sistema deve fornire le competenze in grado di renderlo più appetibile nel mercato del lavoro. L’Italia vi arriva in ritardo, ma il disegno era chiaro già nella Buona scuola di Matteo Renzi, a dimostrazione di come tale visione abbia trovato terreno fertile anche tra i “progressisti”.

L’IPOCRISIA DELL’EQUITÀ SOCIALE

Ora la destra pigia sull’acceleratore. Seppur con quattro soldi, banche e imprese entrano a pieno diritto nel sistema d’istruzione nazionale, cosa ben diversa dalle forme di contribuzione che già operano a livello territoriale sotto forma di donazioni.

E lo scopo è chiaro, come ha affermato l’ad di Autostrade per l’Italia Roberto Tomasi: «Il tema dell’istruzione e del capitale umano è cruciale, perché il mondo delle imprese abbia a disposizione i lavoratori con le giuste competenze e anche per una questione di equità sociale».

Dove sia l’equità sociale in un mondo del lavoro caratterizzato da contratti precari, bassi salari, flessibilità estrema e quale sia il radioso “futuro” resta un mistero. La scuola che addestra alla competizione, prefigurando un mondo di vincitori e vinti, non vogliamo che diventi quella delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi. Alla perversa logica economica che misura tutto in termini di successo/fallimento, continueremo a opporre l’idea che un’altra scuola è possibile e soprattutto necessaria.