Si stringe il margine di manovra del governo Meloni a fronte dei rivolgimenti internazionali. La via prevede alcune tappe obbligate, con ripercussioni che potrebbero incidere sul consenso dei partiti di maggioranza.

In primo luogo ci sono i dazi di Donald Trump, le cui conseguenze economiche si riverbereranno anche sull’economia italiana. Ciò rischia di accadere soprattutto nel settore dell’automobile, che già attraversa una lunga crisi, e se saranno confermati i dazi americani ripercussioni sociali negative diventano molto probabili anche nel nostro paese.

Il governo potrebbe dover fronteggiare esuberi, cassa integrazione, fallimenti e chiusure. Nel caso di ritorsione europea, con reciprocità nell’imposizione di misure protezionistiche, è possibile anche una riaccensione dell’inflazione che costituirebbe un altro problema difficile da gestire.

Se il protezionismo di Trump determinerà un ulteriore rallentamento economico nel Vecchio continente, le misure nazionali non basteranno e servirà un nuovo impulso europeo per rafforzare il mercato interno, oltre ai soliti interventi della Bce, come è stato di recente sottolineato anche dal presidente della Confindustria, Emanuele Orsini.

La premier non potrà sottrarsi a iniziative che andranno eventualmente a rafforzare l’integrazione economica, ma al tempo stesso potrà portare avanti una linea più realista rispetto al Clean Industrial Deal, oramai inadeguato ad aiutare l’industria europea con i suoi eccessi regolatori e i suoi standard dirigistici. A ogni modo, su questi temi il sovranismo è destinato a restare in disparte perché la magnitudine dei problemi è tale da poter esser risolta soltanto da un accordo europeo prima e da un auspicale più ampio negoziato commerciale con gli Stati Uniti.

La politica estera

L’altro passo obbligato è in politica estera. Meloni ha acquisito gran parte della propria credibilità internazionale nel fermo sostegno all’Ucraina. Ora, anche di fronte all’inversione della linea imposta da Trump, non potrà sfilarsi facilmente dal supporto a Kiev perché il rischio è di perdere la faccia.

Dunque, pur avendo spazio per calibrare la posizione italiana a metà tra le posizioni più arcigne contro i russi dei baltici e dei polacchi e quelle pacifiste dei filo-trumpiani, sarà costretta a seguire almeno in parte la linea di Francia, Germania e Inghilterra.

Ciò non si tradurrà probabilmente subito nell’invio di truppe, ma in un sostegno economico e militare che potrebbe durare anche dopo l’eventuale armistizio tra Kiev e Mosca. È in questo contesto che Meloni dovrà tenere a bada le pulsioni della Lega, che vorrebbe subito l’adesione a una linea non-interventista.

Matteo Salvini metterà pressione sulla premier, anche perché potrà contare sulla sponda di una parte dell’opposizione. Movimento 5 stelle e Avs non hanno una linea di politica estera così diversa da quella leghista e il vicepremier farà di tutto per non lasciare il fronte pacifista alla sola sinistra.

La spesa militare

Ciò ci conduce alla terza tappa obbligata di Meloni: l’aumento della spesa militare. La premier ha già detto che, nell’ottica di un accordo europeo e in ossequio alle richieste americane, è disponibile ad aumentare di un 1 per cento sul Pil la spesa per la difesa arrivando al 2,5 per cento.

Qui sorge un problema politico che il governo dovrà gestire con attenzione. Se si guardano i sondaggi di opinione in Italia, soltanto una piccola minoranza è favorevole a proseguire la fornitura di armi all’Ucraina ed è grosso modo la stessa minoranza che è a favore di un aumento della spesa per la difesa.

Su questo tema, dunque, Meloni rischia di rappresentare una minoranza del paese e di essere incalzata da alleati e avversari per l’investimento nella produzione di armamenti. Eppure la crescita della spesa militare è un’opportunità per l’Italia se adeguatamente spiegata a livello politico.

L’Italia ha il capitale umano, la tradizione manifatturiera, la capacità produttiva per raccogliere ottimi risultati nel settore della difesa. Sono pochi i paesi europei superiori o al nostro pari in questo ambito. La crescita degli investimenti nel settore militare può aiutare a bilanciare le perdite che, per scelte politiche sbagliate e per il protezionismo, avverranno in altri settori.

Dunque c’è l’opportunità di rafforzare le nostre industrie della difesa, far crescere l’indotto, favorire il passaggio di tecnologie militari al settore civile. Ciò non significa adottare una politica estera aggressiva, ma mettere in sicurezza il paese, rafforzare l’Europa, sviluppare deterrenza, creare opportunità di sviluppo alternative. È un punto delicato sul piano politico per il centrodestra, che può anche generare scontento in una fetta dell’elettorato, ma considerato lo scenario internazionale il governo non ha alternative.