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di Ferruccio De Bortoli
Mai come in questo periodo — anche perché il nostro sguardo è costantemente rivolto agli Stati Uniti — le dinamiche del capitalismo finanziario, e soprattutto digitale, sono apparse così in conflitto con le regole di uno stato di diritto. Due rette drammaticamente divergenti. Non solo. La democrazia, che è fatta di procedure (spesso eccessive ma senza le quali non c’è tutela dei diritti), appare un insopportabile intralcio all’innovazione. Un macigno contro il progresso. Un limite alla competizione geopolitica tra blocchi, specie sull’intelligenza artificiale, l’economia dello spazio, lo sfruttamento delle materie prime rare e via di seguito.
I monopoli non sono più una minaccia, ma appaiono come la dimensione necessaria per il salto di paradigma tecnologico. La concorrenza, che premia troppo i consumatori e deprime la domanda di investimenti, è invisa. Il pubblico è depredato dei suoi dati e di porzioni crescenti della vita quotidiana, senza che questo produca alcuno scandalo intollerabile. Inutile citare gli ormai celebri scritti di Peter Thiel o di Marc Andreessen, i pensatori della svolta tecnocapitalista Usa, seppur caratterizzata da personalismi paleolibertari (alla Musk) e spinte di protezionismo reazionario. Il filosofo sloveno Slavoj Zizek sostiene, forse con enfasi eccessiva, che si stanno recidendo tutti i legami tra capitalismo e democrazia. Saremmo già in un’altra epoca. Persino il mercato, intoccabile totem del pensiero liberale e delle democrazie rappresentative, appare improvvisamente, soprattutto se regolato e trasparente, invecchiato o addirittura inutile. Sfugge ai più che il mercato è un luogo di libertà: nell’intrapresa, negli scambi, nella difesa del risparmio, nella protezione dei più deboli.
Ma società ed emittenti spesso lo evitano accusandolo di non valorizzare le potenzialità aziendali e di imbrigliare troppo gli animal spirit del capitalismo. Negli ultimi anni abbiamo visto proliferare i mercati privati che ormai hanno tolto volumi e valori a quelli pubblici, cioè funzionanti con le regole della democrazia e non con i capricci dei tanti oligarchi dell’Ovest e dell’Est.
È privato e oscuro tutto il mondo delle criptovalute e delle stablecoin, queste ultime chiamate a soccorrere addirittura le riserve valutarie americane e a sostenere il debito federale. Che questo gigantesco anfratto della finanza mondiale sia il luogo anche del crimine e dell’evasione fiscale non importa a nessuno. Essendo sulla frontiera dell’innovazione appare, per sua natura, virtuoso, irresistibile e attraente.
Chi scappa
Assistiamo a una fuga di titoli dalla Borsa (soprattutto italiana), a una massiccia emigrazione dei grandi gruppi (anche del made in Italy) verso più comode sedi legali e fiscali, a un progressivo discredito un po’ ovunque delle autorità indipendenti. Non solo della Federal Reserve da parte dell’amministrazione Trump, ma anche, nelle più provinciali e modeste vicende di casa nostra, di istituzioni come la Consob. Per non parlare della rappresentazione pubblica di una magistratura autoreferenziale e antipatriottica (non priva di qualche verità) che una politica, soprattutto sovranista — negli Stati Uniti come in molti Paesi europei compreso il nostro — alimenta quotidianamente.
L’insofferenza nei confronti di ogni controllo di legalità è diventata espressione di coraggio politico e imprenditoriale. Un’affermazione identitaria di carattere. La prova di uno spirito pionieristico. Dunque, non solo scusabile ma persino da ammirare. Nessuno sembra temerne un contraccolpo reputazionale perché forse la reputazione non è più un valore. Il consenso è legittimità, il successo perdona tutto. L’esercizio del potere attraverso la forza è ormai l’unica misura reale della leadership. Anche la democrazia societaria è in lento e inesorabile declino.
L’opacità personalistica dei fondi d’investimento vince sulla struttura, a volte troppo barocca, delle società per azioni. Dei primi, obnubilati dalla loro potenza economica, non si conosce la governance. Nelle seconde emerge la tendenza a premiare i gruppi di controllo. E con la cosiddetta Legge Capitali in Italia si è esagerato, rispetto alle migliori pratiche internazionali. Le public company, ad azionariato diffuso, appaiono una suggestione d’altri tempi. In Italia mai amate e soprattutto avversate. Gli investitori stranieri, guardando alla deformazione dei poteri del golden power, capiscono che più dei buoni progetti contano le buone relazioni con la politica. Succede, sempre più di frequente, anche in altri Paesi europei.
Gli imprenditori italiani ne sollecitano persino l’applicazione più estesa, oltre a non battere ciglio sull’interventismo statale, spesso sollecitato (non solo per l’acciaio ma persino per i giochi). Le minoranze sono un fastidio, i loro diritti il residuo di un’epoca troppo egualitaria.
Le marce indietro
L’attuale marcia indietro sulle questioni di parità (diversità, equità e inclusione) ha accentuato il revisionismo societario dei diritti. E stupisce che non vi sia stato nessuno, tra imprenditori e finanzieri italiani, che abbia contrastato pubblicamente questa deriva di civiltà, non solo aziendale. Ciò suscita il fondato sospetto che le tante cose scritte in sontuosi bilanci sociali non siano espressione di scelte convinte e ragionate, bensì del peggiore opportunismo.
Dopo averli troppo celebrati per il coraggio nel promuovere i temi della sostenibilità, nessuno ha battuto ciglio di fronte al voltafaccia di grandi guru della finanza come Larry Fink sulle questioni Esg (Environmental, social and governance). Essendo Blackrock — ma potremmo citare altri illustri casi — uno dei più ricchi investitori e azionisti di banche e gruppi italiani, si è preferito fischiettare e fare finta di nulla. Qualcuno prudentemente non cita più nei report i fattori Esg. Dimenticati di colpo.
Nuove prudenze
Di fronte alle scelte legate alla transizione energetica troppi imprenditori e finanzieri sono diventati, con il governo di centrodestra e con la svolta europea in materia, prudenti se non dichiaratamente scettici. Anche in questo caso facendo passare solenni impegni pubblici del passato come spregiudicate acrobazie di greenwashing. Al mantra della sostenibilità si è sostituito, per certi versi opportunamente, quello della neutralità tecnologica.
Un esame di coscienza (e di coerenza) della classe dirigente privata sarebbe insieme e indispensabile e urgente. Mentre prevale — come è chiaro nelle vicende del risiko bancario — una visione corporativa basata solo sul vantaggio immediato dei propri azionisti. Come se la dimensione sociale dell’impresa si esaurisse all’ultima riga di bilanci mai così ricchi e di remunerazioni per i manager e gli azionisti mai così generose. Il resto non conta.