Per la prima volta Leone XIV celebra la festa degli apostoli Pietro e Paolo, e sui capostipiti della chiesa di Roma tornerà a meditare nella messa di oggi, occasione privilegiata anche per riflettere sul ruolo papale. Eletto da poco più di cinquanta giorni, in sei settimane Prevost ha mostrato il suo stile: evitando ogni protagonismo, mai sopra le righe, è determinato, ma equilibrato e tranquillo.
Con questo stile, fin dall’esordio in pubblico dopo l’elezione, Leone ha fatto capire che sarà un papa di governo, normale e nuovo nello stesso tempo. Come ha confermato una scelta delle primissime ore del pontificato, quando è tornato con normalità a dormire a casa sua – nel palazzo extraterritoriale del Sant’Uffizio – invece di restare a Santa Marta, dove ha trascorso solo una notte, il minimo indispensabile.
Il conclave
Robert Francis Prevost è stato identificato e scelto dai suoi colleghi cardinali già prima del conclave. Alle attendibili ricostruzioni del New York Times e del Figaro, pubblicate nella prima settimana del pontificato, si sono aggiunti dettagli su come si è arrivati alla sua elezione: avvenuta in una ventina di ore, ma preparata con discrezione già nei giorni della sede vacante. «Se avesse voluto, avrebbe potuto scrivere il discorso mercoledì sera» – cioè nelle prime ore del conclave – ha confidato all’inizio di giugno un anonimo elettore al settimanale cattolico spagnolo Vida Nueva, che ha sempre sostenuto papa Francesco.
Tanto che il direttore José Beltrán ne ha dedotto, in modo plausibile, che non vi sono stati negoziati, «né una notte in bianco, né gruppi di pressione per scambiare voti. Né sorpasso, né ritiro di candidature. Tutto si è svolto con più naturalezza». Insomma, a Santa Marta i cardinali sono «arrivati con i compiti fatti». Con buona pace della stragrande maggioranza dei vaticanisti – in particolare italiani, che a candidati italiani pensavano – e poi di successive bizzarre ricostruzioni che hanno favoleggiato di un vero «vincitore» del conclave: ovviamente italiano.
A confermare l’andamento lineare e fulmineo della scelta è ora un elettore argentino, il gesuita Ángel Sixto Rossi, arcivescovo di Córdoba. Senza svelare segreti – scrive Beltrán nell’ultimo numero della sua rivista – il cardinale Rossi ha lasciato capire che il conclave si è svolto in un modo «inatteso per quanti pensavano di giocare alle minoranze di blocco come altre volte». Ribadendo che tutto è andato «in modo più naturale» e che un «vento fresco soffiava già prima» delle pochissime ore di clausura.
Rompere il tabù americano
Prevost, considerato papabile da alcuni osservatori, appariva però un candidato improbabile, se non addirittura impossibile, per la sua origine statunitense. Ma come era avvenuto per l’elezione di Wojtyła, proveniente da uno dei due blocchi che si fronteggiavano dai tempi della Guerra Fredda, va dato atto al collegio dei cardinali – preso nel suo insieme e prescindendo dalle singole personalità, in genere poco significative e in diversi casi persino controverse – di aver saputo sbarazzarsi, nella più impermeabile riservatezza, anche di questo tabù geopolitico.
Certo, nella scelta dei cardinali ha giocato un ruolo la dimensione panamericana, per così dire, di Prevost, a lungo missionario e vescovo in Perù, paese di cui ha preso la nazionalità. Ma a pesare è stato anche il suo lungo governo degli agostiniani, l’antico ordine religioso a cui appartiene e che ha guidato per dodici anni conoscendo il mondo. Dopo una solida formazione accademica: dagli studi in matematica e filosofia negli Stati Uniti al dottorato in diritto canonico all’Angelicum di Roma, con una tesi, pubblicata nel 1987, sul ruolo del priore locale nell’ordine di sant’Agostino.
Interpellato durante la sede vacante, chi da tempo conosceva Prevost lo descriveva come «uomo dalle grandi idealità, aperto, promosso da Francesco, ma anche un canonista, un uomo che ha sempre governato con equilibrio, rispettoso delle istituzioni. Un po’ critico – sottovoce e sempre con rispetto dei superiori – verso le gestioni troppo informali delle cose romane degli ultimi 12 anni».
Come prefetto dei Vescovi dal 2023, il prelato americano aveva poi «avuto modo di farsi una panoramica sugli episcopati mondiali e una esperienza della curia romana, di quello che va e di molte cose che non vanno e che conosce bene». Insomma, «un buon candidato» a cui già si guardava da parte di molti cardinali non curiali, e – ormai alla vigilia del conclave – «anche in curia da chi spera continuità, ma più rispetto delle istituzioni» aggiungeva l’interlocutore.
Il cambio di passo e la squadra
L’analisi di chi conosceva Prevost è confermata dall’inizio di un pontificato che segna un evidente cambio di passo rispetto a papa Francesco, nonostante i frequenti richiami di Leone al predecessore argentino. I riferimenti, peraltro sobri, sono però anche ad altri pontefici da parte di un papa che ha saputo scegliere – e il pensiero corre a quanto aveva scritto Montini in un appunto poco dopo la sua elezione – un «nome bello e nuovo, tradizionale, ma diverso da quelli ripetuti negli ultimi tempi».
Nettissimo è soprattutto lo stacco rispetto alla debordante personalizzazione del papato esercitata in modo autocratico dal pontefice argentino. Chiare sono state le parole di Leone ai cardinali che l’avevano eletto due giorni prima: il papa «è un umile servitore di Dio e dei fratelli, non altro che questo». Una figura che non deve «cedere mai alla tentazione di essere un condottiero solitario o un capo posto al di sopra degli altri» ha poi precisato nell’omelia della messa inaugurale del pontificato.
Fondamentale sarà la squadra di collaboratori che Prevost sceglierà, probabilmente senza fretta. Ma i primi segnali sono indicativi. Incontrando i curiali e i dipendenti vaticani Leone ha esordito con una frase semplice ed eloquente: «I papi passano, la curia rimane».
Abissale è dunque la differenza rispetto alle frustate verbali più volte inflitte – ma senza risultati – dal predecessore alle strutture curiali e vaticane, bisognose certo di continue riforme ma rispetto alle quali Bergoglio si era sempre sentito estraneo e alternativo. «Si è subito avvertito un clima diverso, più disteso» aveva osservato già prima dell’udienza un laico a quotidiano contatto con i papi dal tempo di Giovanni Paolo II.
Altrettanto significativa è stata l’udienza alla Segreteria di stato, svuotata di potere da papa Francesco, e alla quale Leone ha voluto ridare fiducia ribadendo che «il papa da solo non può andare avanti» e che deve contare sulla collaborazione di molti, «ma in maniera speciale» appunto sulla Segreteria di stato. Sarà dunque la collegialità, disegnata dal concilio, la cifra del governo di Leone in un tempo di guerre (e di polarizzazioni, anche tra i cattolici): successore di Pietro ma anche di Paolo, i due apostoli che – con le parole di Clemente I – papa Montini aveva definito le «grandi e giuste colonne» della chiesa romana e di quella universale.