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30 Giugno 2025
The Beatles – Hey Jude
30 Giugno 2025L’articolo di Derobertis racconta il Palio di Siena come un rito arcaico e viscerale, fuori dal tempo e controcorrente rispetto ai valori dominanti del presente. Esalta la dimensione tribale, fatta di passioni assolute, rivalità, corruzione e botte, legittimandole come espressione autentica di un’identità collettiva forte, che resiste alla modernità e alla sua patina moralizzante. Il tono è partecipe e provocatorio, ma rischia di confondere tradizione con regressione, appartenenza con esclusione, e violenza con folklore. Un affresco vivido, ma non privo di compiacimento nostalgico. (NdR)
Scorrettissimo palio. Il mondo al contrario di Siena
Tradimenti, botte, soldi, vino. Una festa in controtendenza con il mainstream attuale fatto di inclusione e rispetto per gli sconfitti
In un pezzo di stoffa lungo tre metri con il volto della Madonna e il muso di dieci cavalli dal pennacchio di diversi colori – il palio, famoso cencio che verrà consegnato alla contrada vincitrice – ci sono tante storie differenti. Un caleidoscopio di sentimenti, emozioni, paure, passioni. Speranze, sogni. Un misto di follia, coraggio e delusione, odi e amori, che mette in fila pianti e grida, notti insonni, botte prese e date, nerbate, tradimenti e delazioni, inconfessabili segreti, soldi e vino che scorrono a fiumi. Discese spezzacollo come quella che in piazza del Campo conduce alla curva di San Martino o salite impervie, quando dopo tre pazzi giri di piazza si riemerge al Casato e ci invola verso la gloria del bandierino, il punto dell’arrivo. Booooom, il mortaretto scoppia, la contrada ha vinto, Siena ha la sua regina, la festa ha inizio, il popolo può coronare il sogno cullato a volte per anni, in certi casi per decenni.
Il palio di Siena è tutto questo, essenzialmente una mutevole raffigurazione della vita, un secolare affresco destinato a durare nei secoli perché eterni sono i sentimenti che racconta, che niente hanno a che fare con quello che la festa senese non è – una rievocazione medioevale, una corsa di cavalli, una gara, una sfilata, uno scontro tra tifoserie – e che misteriosamente spiega i motivi di un crescente successo di interesse fatto di audience televisiva al top, di turisti sempre più impazziti che intorno al 2 luglio e al 16 agosto sciamano per le vie di Siena, di curiosità e interesse di vip e di semplici appassionati non senesi. Un pezzo di Medioevo che è rimasto intatto con i sentimenti di quell’epoca, quasi tutti in controtendenza con il mainstream attuale fatto di inclusione, rispetto per gli sconfitti, dell’ipocrisia che ci impedisce di chiamare i nemici con il loro nome, di programmazione sfrenata in ogni ambito della vita, di una globalizzazione anche culturale che ci induce ad apprezzare più quello che è lontano che ciò che ci è prossimo, di sterilizzazione di ogni sentimento “forte” perché il vicino va rispettato quando non puoi amarlo. Una festa decisamente poco politicamente corretta. E forse c’è da farsi qualche domanda se il riflusso senese, una ribellione silenziosa alla modernità, attira simpatie e comprensione, e magari se una volta venisse Trump a vederla forse la troverebbe divertente anche lui.
Il palio di Siena è un mondo al contrario a quello di oggi. L’inclusione, per dire, sotto la Torre del Mangia è un concetto poco praticato, e ci sono molte contrade che hanno impiegato anni per ammettere le donne alla vita sociale. Le “ocaiole”, contradaiole dell’Oca, hanno ottenuto il diritto di parola e di voto nelle assemblee interne solo nel 2012, dopo che qualche anno prima era stato organizzato un referendum per chiedere la parità che si era concluso con la sconfitta delle “suffragette”. Dovette intervenire il Magistrato delle contrade, organo super partes, per togliere il divieto. Nei cortei di popolo che si svolgono nei giorni del palio si sfila come un tempo. Avanti gli uomini, poi i ragazzi e in fondo le donne con i più piccoli. Rigorosamente divisi. Ma in piazza del Campo la modernità corre molto meno velocemente dei cavalli nel tufo, in quei novanta secondi che dura la “carriera”, nessuno scalpita come invece i fantini alla mossa. I social contradaioli sono un mezzo pressoché sconosciuto o comunque maneggiato con molta cura, il concetto chiave che ci restituisce Siena è quello di appartenenza, idea antiglobal che però non sfocia nel sovranismo o in una sterile rivendicazione identitaria, e se mai è figlia di una orgogliosa dichiarazione di autosufficienza, forse reminiscenza della repubblica senese cui anche i Medici riconobbero cospicue forme di autonomia. Siamo qui perché ci siamo sempre stati. Nell’appartenenza senese c’è la passione che dà vita a un sistema sociale in cui le contrade organizzano e scandiscono la vita della città, svolgono controllo sociale (i tassi di malavita a Siena sono insignificanti) e si occupano della quotidianità, dai gruppi di donatori di sangue, alle ripetizioni scolastiche per i ragazzi in ritardo, al dopolavoro, le gite sociali, al sostegno per chi ha situazioni più sfavorevoli. L’appartenenza per cui si nasce in un popolo e in quello si resta. Con i suoi amori e i suoi odi. Perché a differenza del mondo attuale che ci educa ad annacquare i sentimenti, anche quelli
negativi, a Siena l’odio è da tempi immemori sdoganato. Che è paliesco ma è sempre odio. Quello per cui quando nasci in una contrada sai che per tutta la vita dovrai odiare la nemica, anche senza averne coscienza del motivo. Pochi contradaioli dell’Oca sanno che l’inimicizia con quelli della Torre risale addirittura al 1671, quando i due popoli vennero per la prima volta alle mani in occasione dell’insediamento del vescovo Clelio Piccolomini, pretendendo entrambi i gruppi di reggerne il baldacchino. Il sant’uomo mai avrebbe sospettato che da quel giorno avrebbe preso il via un’inimicizia storica, rinverdita nel tempo da feroci cazzottate, tradimenti di fantini, scherzi beffardi come quando i torraioli versarono di notte camionate di aceto di vino in vetta a Fontebranda per ricordare la caduta del fantino Aceto che portava i colori della rivale, e per giorni e giorni all’Oca la gente non riusciva a uscire di casa dall’odore mefitico di aceto, o dopo una brutta caduta della Torre, a una certa ora della notte in un sempre diverso cantone di Salicotto si levava il rumore sinistro di una tromba che suonava il Silenzio.
Perché a Siena la nemica si odia, un sentimento che fa parte della vita e ha mandato avanti la Storia ma che ormai tendiamo tutti ad anestetizzare (negli stadi si è arrivati a multare cori di sfottò per gli avversari), e di cui invece al palio nessuno fa mistero. Nei giorni prima della festa i capitani rilasciano continue interviste e candidamente spiegano che il proprio scopo sarà quello di non far vincere le nemica. Per fissare il concetto, quasi nobilitandolo, è stata anche coniata un’espressione, “facciamo palio a perdere”. E per non far vincere l’av-versaria i contradaioli si tassano di tasca, ingaggiano fantini guastatori, gente magari a fine carriera che accetta di scendere in piazza concordando un compenso che è commisurato oltre che sull’obiettivo da raggiungere (stoppare la rivale) anche sulle giornate di squalifica a cui il prescelto andrà immancabilmente incontro. Proprio in questi giorni, esempio tra i tanti possibili, nelle cene che si svolgono all’ombra del Duomo, nella sede della contrada, i contradaioli dell’Aquila condividono l’uno con l’altro la preoccupazione per la carriera del 2 luglio, cui l’Aquila non partecipa ma in cui corre la Pantera, acerrima nemica. Anche se non sarà alla mossa, la contrada è in ogni caso “al lavoro”, tessendo strategie e alleanze per ostacolare da fuori l’avversaria.
Si odia in piazza e si cerca di far perdere la nemica, e all’occorrenza si è pronti a “fronteggiarla”, come i senesi chiamano le immancabili scazzottate che fanno parte del mito. “Un cazzotto rafforza un’idea”, diceva un famoso militante del Movimento sociale a metà dei mitici anni Settanta. A Siena rafforza una passione. Al reparto di oculistica dell’ospedale delle Scotte la sera del palio è una continua processione di occhi pesti e si racconta di come qualche anno fa una praticante medico al primo anno di specializzazione, non senese, si era messa in testa di domandare ai malcapitati i motivi dell’infortunio. Sentendo che tutti lamentavano la medesima causa, “caduta dalle scale” si era decisa a insistere nelle richieste ed eventualmente segnalare la cosa al posto di polizia; al che era intervenuto un dottore più esperto, senese doc, che l’aveva invitata a desistere. “Vai di là, qui ci penso io”.
Quella del palio è comunque una violenza accettata, che non trascende mai oltre il limite, e che si svolge all’interno di un codice d’onore mai scritto ma da tutti conosciuto. Qualche anno fa durante un “fronteggiamento” tra contradaioli della Civetta e del Leocorno uno riuscì a far capire che aveva perso la fede dal dito. La scazzottata fu fermata e tutti a cercare la fede. Una volta ritrovata, giù ancora schiaffi. E’ il sano cazzotto contadino di una volta, di trenta o quaranta energumeni contro altrettanti, fatto di sganassoni democratici perché alla stessa scazzottata partecipano tutti, e si ritrovano dalla medesima parte della barricata, o magari in quella opposta, il medico e l’infermiere, l’operaio e il commercialista, il professore e il suo studente. Due giorni dopo, tutti al lavoro insieme, come niente fosse. Qualche anno addietro una tv straniera programmò un documentario sul palio e andando a intervistare l’assistente spirituale di una contrada, pose la domanda sul perché dei ceffoni. L’anziano sacerdote si stupì dello stupore: “Bene bene, così si sfogano un po’ e a casa sono più tranquilli con le mogli”. Quasi una cura sui generis antipatriarcato.
L’obiettivo oltre che non far vincere la nemica è aggiudicarsi il cencio, specie se è da molto tempo che non si primeggia, che è l’unica statistica che conta. Nessuno sa quanti pali ha vinto l’una o l’altra, si sa solo da quanto tempo non si è vinto. Più è lontana la vittoria e più ovviamente la fame di successo cresce. E cresce la voglia, che non è un concetto teorico ma molto concreto, nella forma di centinaia di migliaia di euro che la contrada ha a disposizione. Anni fa un capitano per poter vincere vendette un proprio appartamento, vinse ma poi la moglie chiese il divorzio. In nome dell’appartenenza e della passione sfrenata che li anima, prima del palio i contradaioli sottoscrivono una sorta di piccolo contratto nel quale si impegnano a donare una certa somma in caso di vittoria. Soldi che servono a corrompere gli altri fantini e le altre contrade. La corruzione governa il mondo ma è nascosta, mentre nel palio è ammessa, e anzi, si svolge davanti gli occhi di tutti, sindaco, autorità, magistrati, ministri, carabinieri, poliziotti, prima della mossa, quando i fantini hanno conosciuto l’ordine ai canapi e possono fare i loro patti. Per chi è seduto sui palchi lì accanto è tutto un sentire svolazzare di cifre all’apparenza folli (“duecento”, “centocinquanta”, intendendosi migliaia di euro), e nessuno si scandalizza. Per vincere un palio il più delle volte non basta un milione di euro, se c’è molta lotta si può arrivare al milione e mezzo. Ma folle è il palio, perché folle è il sentimento che lo muove.
Soldi che si accumulano nel tempo, strategie di alleanze che si preparano meticolosamente, anche se alla fine decide quasi tutto la fortuna. I cavalli, che sono l’elemento determinante per la vittoria, si estraggono e a sorte va anche il decisivo ordine di partenza. “Conta il culo”, come si dice, come in fondo anche nella vita. In una società che ci ha abituati a programmare ogni cosa, dagli stili di comportamento alle carriere professionali, nessuno in piazza del Campo si fa scrupolo ad ammettere che il più si basa sulla fortuna, la più democratica delle virtù, la più moderna perché mette sullo stesso piano le contrade potenti, popolose e ricche, e quelle minori. In un mondo di plutocrati, fatto ormai di multinazionali che condizionano i governi, a Siena smuove tutto la dea bendata, che ha trovato un modo sapiente e misterioso di miscelarsi alle altre doti che fanno la differenza, l’astuzia, la capacità di tessere relazioni, la prontezza, il coraggio. Perché a Siena, altra particolarità molto poco “moderna”, conta solo vincere, come accadeva nei Giochi olimpici dell’antica Grecia, dove non c’erano podi. Il secondo posto è un disonore. “Purga” si chiama, uno sberleffo che irride l’avversario non per umiliarlo ma per farlo schiantare di rabbia e dove la rivalità è uno stimolo a giurarsi vendetta e quindi a fare meglio. Sentimento molto toscano, gente di collina e in ogni collina c’è un campanile dal quale prender di mira un altro. Da Montaperti in là lo scontro è stato il linguaggio di queste terre. Competizione, confronto, superamento dei limiti. Ma come diceva Orson Welles in Citizen Kane “in Italia durante il Rinascimento si sono sempre combattuti però poi hanno avuto Michelangelo e la Cupola del Brunelleschi, in Svizzera novecento anni di pace hanno prodotto l’orologio a cucù”.
Nell’appartenenza senese c’è la passione che dà vita a un sistema sociale in cui le contrade organizzano e scandiscono la vita della città, svolgonocontrollosociale(itassidimalavitasono insignificanti) e si occupano della quotidianità A Siena la contrada nemica si odia, un sentimento che fa parte della vita e ha mandato avanti la Storia ma che ormai tendiamo tutti ad anestetizzare. La violenza accettata all’interno di un codice d’onore