L’ultimo saggio di Antonio Floridia si intitola Un partito sbagliato, in queste settimane sta lavorando alla seconda edizione. Nonostante questo titolo, non è uno studioso ostile al Pd. Docente di Istituzioni e processi politici all’Università di Firenze, responsabile dell’Osservatorio elettorale della Regione Toscana, è stato presidente della Società Italiana di Studi Elettorali, e componente della Commissione statuto del Pd nel 2009, ai tempi della segreteria Bersani. Ha collaborato a quell’unico unico tentativo di riforma del Pd che però si è arenato con l’avvento del governo Monti. Dal Pd è uscito nel 2014, per questo tiene a dire che «non è uno scissionista dell’ultima ora».

Professore Floridia, oggi è realistico immaginare un’autoriforma del Pd?
Il Pd è irriformabile. È un’impresa temeraria, energie sprecate. Ricordo la volta in cui Bersani parlò del “buon nome della Ditta”. Era il 2010 e già si lamentava che il Pd appena nato cadeva, in certe realtà locali, in mani poco raccomandabili. Oggi il Pd ha un problema serio di esistenza. Conviene davvero una battaglia all’ultimo gazebo per conquistare un partito il cui marchio è decotto?

Perché decotto? È pur sempre il secondo partito d’Italia.
Perché il Pd è caduto in una trappola interna. Si è costruito con un misto di plebiscitarismo e feudalesimo. Da una parte l’elezione diretta del segretario con le primarie, dall’altra un sistema feudale di controllo dei potentati locali. Lo statuto delle origini permetteva tutto questo. Poi è stato modificato nel 2019, e tuttavia resta l’ambiguità di fondo. È paradossale che il Pd non sia stato costruito con un regime di democrazia rappresentativa al proprio interno. Le faccio un esempio: chi vuole studiare il Pd non sa neanche quanti sono gli iscritti. L’ultimo dato ufficiale risale al 2019.

Ora parte un nuovo congresso. Non è un momento di democrazia interna?
Nuove primarie produrranno un nuovo segretario ma lo stesso risultato di sempre. Sarebbe saggio prendere atto che il Pd non ha mai avuto una cultura politica definita, è stato vittima della narrazione sulla crisi delle ideologie. Ma un partito non può reggersi sulle “cose da fare”, l’idea del partito post ideologico è stata una drammatica illusione. Un partito non regge se non ha un quadro condiviso di idee e principi.

Insisto, perché da un congresso non dovrebbe uscire un quadro condiviso di idee e principi?
Al Pd non è mai successo. E c’è un motivo: fin dall’inizio vi hanno convissuto modelli diversi. Faccio un esempio: l’ultima vicenda delle mancate alleanze alle politiche non è frutto dell’imperizia del segretario ma di un dilemma di fondo del partito: il Pd è un partito centrista alla Macron? O un partito che vuole dare voce e rappresentanza ai ceti popolari, anche se non necessariamente socialdemocratico in senso classico? Il tema è la constituency sociale: la politologa Susan Scarrow spiega che un partito concepito come catch-all, piglia tutto, se piglia poco rischia una radicale crisi esistenziale. E il Pd ora è in preda a una crisi esistenziale: non ha mai individuato una base sociale primaria di riferimento. Intendiamoci: non dico che dovrebbe diventare il partito di classe, ma non può eludere il tema.

Dal 2007, con il modello piglia-tutto, il Pd non ha mai vinto e ha preso sempre meno voti.
Il Pd, sin dall’originaria ispirazione prodiana e veltroniana, ha inseguito l’idea del maggioritario. Si è pensato come partito che “corre da solo” e che con la vocazione maggioritaria potesse costruire un’alternativa. Ma senza dotarsi di una cultura politica condivisa: al proprio interno il dialogo fra le culture fondatrici, quella cattolica e quella socialista e comunista, non è mai iniziato davvero. E una nuova identità democratica non è mai nata. Alla fine è prevalso il partito delle correnti, delle cordate di potere. Per questo ha vinto la vocazione governista a prescindere, un malinteso senso della responsabilità nazionale, dai tempi di Bersani con Monti fino a oggi con Mario Draghi.

Letta ha annunciato il congresso, a cui premette una fase di chiamata, di ascolto. Questa invenzione cambierà qualcosa?
Nello statuto originario la parola congresso era stata deliberatamente esclusa. Con una torsione linguistica ed elettoralistica si parlava di «scelta dell’indirizzo politico mediante l’elezione diretta del segretario». Nel 2019 questo articolo, saggiamente, è diventato «scelta dell’indirizzo politico mediante Congresso», finalmente la parola è stata inserita e anche con la maiuscola. Prima gli iscritti al Pd potevano solo scremare i candidati, che poi venivano sottoposti al voto delle primarie. I circoli erano sedi elettorali. Con il nuovo statuto è stata distinta una prima fase in cui vengono presentate piattaforme politico-programmatiche e gli iscritti votano. Poi inizia la seconda fase, in cui spuntano i candidati alla segreteria. Si rivota nei circoli, stavolta per i candidati, i primi due più votati vanno alle primarie, e alla fine tutto va in mano al popolo dei gazebo, con una sorta di concorso esterno. Resta una situazione ibrida: la vecchia procedura delle primarie aperte al primo che passa si sovrappone a una fase di discussione politica precedente.

Letta deve chiarire cosa vuole: o un congresso aperto e inclusivo – parola che ha un preciso significato, non è un’apertura generica – e costituente, che alla fine possa persino decidere se sciogliere il Pd o cambiare nome, e nel caso deve creare un comitato di garanti composto da personalità per metà del partito e per metà esterne. Oppure deve sospendere l’attuale statuto, dare tre mesi di tempo per “la chiamata” che deve essere una vera e propria adesione, attestata con procedure certe. Non si può fare un congresso senza definire il corpo sovrano che ha diritto di voto.

I “chiamati” si dovranno iscrivere entro dicembre.
Ma si dovrebbero iscrivere al Pd così com’è? Altro è iscriversi a un processo costituente che può sfociare nella nascita di un nuovo partito. Serve un tempo congruo per presentare le piattaforme e le adesioni al processo costituente. Invece mi pare che la direzione di giovedì farà semplicemente ripartire la macchina di sempre. Il voto diretto attraverso le primarie, ormai si è capito, non crea maggiore legittimazione per i leader, che anzi ne escono vittoriosi ma vulnerabili e alla fine cadono come birilli.

Per il Pd meglio sciogliersi o scindersi?
Meglio una separazione consensuale. Un congresso vero deve attestare la diversità di prospettive politiche che non possono coesistere. L’idea originaria del partito all’americana, il partito-tenda o il partito-ombrello post ideologico, in cui si possano riconoscere tutti i riformismi, non ha retto alla prova di questi quindici anni. Serve una cornice di cultura politica condivisa: un’idea del lavoro, dell’universalismo del diritto alla salute e all’istruzione. I singoli programmi non bastano.

Quello di Veltroni era un partito ispirato ai democratici americani. Perché in Italia non ha funzionato?
Perché da noi è diverso il sistema istituzionale. Nei democratici americani Sanders o Ocasio Cortez possono emergere nella competizione interna perché le primarie sono per le cariche elettive, non per il segretario del partito. Da noi invece hanno deciso di chiamare primarie tutto, come ci ricorda sempre il professore Gianfranco Pasquino, e invece nel lessico internazionale si chiamano “primarie” solo le forme di selezione dei candidati alle cariche istituzionali.

Non è troppo severo con un partito che almeno i suoi congressi li celebra, a differenza di altri?
È vero, sono severo. Ma ogni partito ha un modello interno di gestione congruo e coerente con i propri principi. Un partito che si fonda sul leaderismo non ha bisogno di procedure democratiche, ma un partito che si chiama “democratico” deve porsi il problema della democrazia interna. E democrazia non vuol dire votare solo alle primarie, ma avere luoghi reali di confronto e di decisione partecipata. Nel Pci, i famigerati funzionari di partito erano anelli essenziali di un circuito democratico tra società, base e gruppi dirigenti. Ma anche la Dc, in forme molto diverse, era capace di percepire in modo capillare gli umori del paese. Nel Pd la logica delle primarie distorce tutto, e chi vince comanda, non ci sono luoghi né cultura della mediazione.

Il Pci era un partito democratico?
Sì, nella sostanza. Il centralismo democratico era democratico davvero. Perché nel Pci certo c’erano leader e personalità forti, ma nella gestione veniva ricercata la collegialità. C’era un meccanismo infallibile di dialogo fra base e vertice, oggi lo chiameremmo feedback. Il classico e oggi deriso funzionario di partito veniva mandato a fare le riunioni di sezione, e se sapeva fare il suo mestiere riportava “al centro” gli umori della base. Al Pd, come ha spiegato Carlo Trigilia in un articolo apparso subito dopo le elezioni del 2018, sono mancati i “sensori”, i terminali.

Il radicamento territoriale non serve al volantinaggio ma a percepire i problemi. Faccio un esempio concreto di come non ha funzionato il Pd: durante il governo Renzi è stata fatta la legge della cosiddetta “Buona scuola”. Il ministero ha organizzato un’ampia consultazione nel mondo della scuola sui contenuti di quel progetto di legge. Il risultato è stato che sulla carta andava tutto bene. Poi quando la legge è stata applicata sono scoppiate le proteste degli insegnanti. Il Pd non è stato in grado di testare quella riforma fra i suoi insegnanti, peraltro una categoria molto orientata a sinistra. Tant’è che da lì in avanti il voto dei prof, che era una roccaforte del Pd, è sceso drasticamente.