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18 Settembre 2022Conversazione tra Gianni Coscia e Gianluigi Trovesi a cura di Helmut Failoni
Ai loro concerti si assiste sempre con emozione ma si (sor)ride anche molto, perché tra un brano e l’altro raccontano storie e aneddoti, sempre abbondantemente annaffiati da un’ironia soffusa, antica e galante. Il duo formato da Gianni Coscia (1931) — fisarmonica — e Gianluigi Trovesi (1944) — clarinetti e sassofoni — il 30 settembre inaugurerà ad Appiano (Bolzano) il festival Fokus Ecm diretto da Guido Gorna (il 2 ottobre saranno invece a Monaco, in Germania), con un concerto dedicato a Umberto Eco, del quale Coscia, a partire dalla condivisione dei banchi di scuola, è stato grande amico per tutta la vita.
Con la loro musica, con i loro dischi in coppia — ne citiamo uno su tutti: l’imperdibile In cerca di cibo (Ecm, 2000) — si viene riportati indietro, in un tempo per tanti forse mai vissuto, ma comunque vibrante e autentico, come certe foto in bianco e nero. Senza trucchi e senza sovrastrutture. La loro è molto semplicemente una musica di meravigliosa resistenza, piena di una grazia fatta di jazz, etnie immaginarie, terra e memoria, melodie struggenti e ritmi incalzanti.
Ricordate dove vi siete incontrati?
GIANLUIGI TROVESI — In Rai. Quando, non me lo ricordo, bisogna chiedere a Gianni che, nonostante abbia qualche giorno più di me, ha molta più memoria.
Il duo invece quando nacque?
GIANNI COSCIA — Siamo stati inventati nel 1989 a Tortona.
Cosa significa inventati?
GIANNI COSCIA — Alberto Bazzurro organizzava un festival in cui costruiva gruppi con musicisti che non avevano mai suonato insieme prima.
GIANLUIGI TROVESI — Noi ci siamo lanciati subito. Ma elettronicamente.
Perché dice elettronicamente?
GIANLUIGI TROVESI — Gianni all’epoca sulla fisarmonica aveva un registro che riusciva a imitare il suono che si sente in Apocalipse Now, quando arrivano gli elicotteri. Era preciso identico. E io avevo appena fatto un disco dove avevo usato ampiamente l’elettronica.
Ma voi siete però famosi, al contrario, per un meraviglioso suono acustico, non per l’elettronica…
GIANNI COSCIA — Abbiamo capito subito che stavamo compiendo un peccato mortale e rovinando il suono naturale dei nostri strumenti, con l’uso di tutta quella mercanzia.
GIANLUIGI TROVESI — Ci siamo poi unicamente concentrati sulla bellezza del timbro, del suono. Prima però avevo la mania di provare a usare qualsiasi effetto, peraltro senza capirci niente. Utilizzavo l’octaver, pedalini vari, l’eco…
A proposito invece di Eco, inteso come Umberto Eco, i concerti del 30 settembre e del 2 ottobre sono dedicati a lui. Eravate molto amici e molto uniti.
GIANNI COSCIA — È un tributo a Umberto. In scaletta abbiamo brani che ci hanno legato a lui in tanti anni.
GIANLUIGI TROVESI — Ha scritto delle cose bellissime sul nostro conto. Non so se ce le meritiamo, forse sì… (ride, ndr).
Per due dischi scrisse per l’appunto le note di copertina: nel 1985 per «L’altra fisarmonica» di Coscia e nel 2001 per il vostro «In cerca di cibo».
GIANNI COSCIA — Nell’85 lavoravo in banca e prima di far uscire il disco volevo conoscere l’opinione di Umberto. Lo invitai a casa: ascoltò la musica e poi, senza dire niente, sparì in un’altra stanza. Tornò dieci minuti dopo, mi allungò un foglio e disse: «Tieni, queste sono le note di copertina». Era un testo scritto di getto come sempre faceva, senza alcuna correzione. Un cosa simile la fece anche all’esame di maturità per il tema di italiano. Come voto gli diedero «discreto». Il che significava o che la commissione aveva pensato che fosse stato copiato, oppure che erano i professori a non aver capito.
Il vostro disco più recente, «La misteriosa musica della regina Loana» (Ecm), dell’estate del 2019, è per Eco.
GIANLUIGI TROVESI — Il disco è tutto costruito su La meravigliosa fiamma della regina Loana del 2004 (Bompiani, ndr). Che, se non sbaglio, è il suo quinto romanzo. Quasi tutti i nostri ultimi concerti, prima della pandemia, giravano intorno ai brani di quel cd. Oltre ai brani di quel disco, ad Appiano suoneremo Django di John Lewis, Le giostre di piazza Savona, un pezzo di Gianni. Raccontalo tu…
GIANNI COSCIA — Capitava che Umberto venisse a trovarmi ad Alessandria per passeggiare insieme. Percorrevamo le vie secondarie che faceva da ragazzo per andare al Convento dei frati, perché quando era giovane era anche molto pio, faceva la comunione tutte le mattine. Un giorno ci trovammo davanti alle giostre in piazza Savona. In quella dei cavallini venivano diffusi dischi di jazz bellissimi, ma il suono era disturbato da quello che proveniva dai dischi delle altre giostre. Nel mio pezzo ho ricreato quella confusione sonora in cui ci ritrovammo. Suoneremo anche C’era una strega, c’era una fata di Gianluigi, che è basato sulla follia di Arcangelo Corelli e Umberto amava tanto la forma della follia.
Un vostro concerto che vi ha deluso?
GIANLUIGI TROVESI — A Piombino una volta, dopo venti minuti di musica, in una piazzetta deliziosa, cominciarono a passare auto e moto a più non posso quasi davanti al palco. Si erano dimenticati di chiuderla la traffico.
GIANNI COSCIA — Perché, non ti ricordi quella volta in Liguria che arrivammo per fare un concerto e non venne nessuno perché l’organizzatore si era dimenticato di darne notizia?
Cosa cercate nel jazz o con il jazz?
GIANLUIGI TROVESI — La poesia. Il canto del suono. Da ragazzo, ovvio, ero affascinato da chi aveva una tecnica strepitosa, ma il mio insegnante mi ripeteva: «Cura il suono, perché il suono è personale, è solo tuo». Il suono di Gianni si sposa benissimo con il suono del clarinetto e viceversa. Si possono confondere i due strumenti, tanto sono intersecati fra loro. Scusate, ma oggi abbiamo deciso di darci delle arie… (risata, ndr). Tanti anni fa ero in India con Giorgio Gaslini. Abbiamo ascoltato dei concerti: prima di entrare nella sala, ci hanno fatto stare diversi minuti in una stanza silenziosissima. La prima nota, che ci arrivò dopo quel silenzio, ci fece venire la pelle d’oca. Fu bellissimo. Ora invece si può avere musica di continuo, anche senza qualcuno che la suoni e per questo il mestiere del musicista non è più ambito come una volta.
GIANNI COSCIA — Sono stato invitato a visitare un Conservatorio. Mi accompagnò la direttrice e alla fine io dissi: «Una scuola perfetta, insegnanti favolosi, tutto bello, i ragazzi escono con preparazione strabiliante». Lei: «Ma grazie». E io: «Tutto bello, ma manca il parrucchiere».
Un parrucchiere? E perché mai?
GIANNI COSCIA — Perché una volta in ogni bottega di parrucchiere c’era una chitarra che, o il barbiere o il cliente in attesa, strimpellava. È quello che manca nelle scuole. Quel modo lì di apprendere.
GIANLUIGI TROVESI — In val Seriana, la mia valle, quando ero ragazzo si imparava a suonare nelle sale da ballo. Le hanno chiuse tutte. Dove vai, non dico a suonare, ma a imparare a suonare? Non voglio fare l’anziano, ma quand’ero ragazzo il batterista della sala da ballo come punto di riferimento aveva Benny Goodman… Uno che oggi invece vuole fare musica pop, rock, da ballo, che riferimenti ha? La musica è passata di moda? Forse no, perché trovo musicisti che suonano con tecnica e sanno tutto, ma dove va a finire tutta la loro sapienza?
GIANNI COSCIA — La vecchia scuola dei jazzisti è stata forgiata nelle sale da ballo e nelle cantine.
Vedete così drasticamente triste la situazione oggi?
GIANNI COSCIA — Mi spaventa oggi che questi ragazzi tutto quello che imparano, lo imparano solo a scuola. Escono dei mostri di tecnica, di incredibile bravura. Ma sono forgiati unicamente dal libro. Per noi l’ascolto del disco era come entrare in una congrega di carbonari. E un disco nuovo lo ascoltavamo fino a quando la puntina non passava dall’altra parte. Non capivano nulla, non sapevamo nulla, non esisteva un libro, provavamo a capire solo con le nostre orecchie.
GIANLUIGI TROVESI — Ogni epoca storica produce arti e dopo un periodo di tempo quel prodotto si sposta altrove. È come un frutto, un vino: nascono se c’è la terra giusta. Noi siamo stati fortunati.
GIANNI COSCIA — Si sta imparando a suonare il jazz come si fa per imparare a suonare Beethoven, ma sono due mondi diversi. Beethoven non hai altro modo di impararlo se non attraverso le sue partiture. Ma il jazz non si imparava così, ci deve essere necessariamente una componente che non nasce dal libro.
Ma se lei andasse in una classe di jazz al Conservatorio, cosa farebbe?
GIANNI COSCIA — Direi ai ragazzi di provare a chiudere le partiture. Mi è capitato di suonare con due pianisti. Erano bravissimi con lo spartito davanti ma, se glielo toglievi, erano persi. Dalle scuole escono mostri di bravura e tecnica, ma non ti commuovono. Il jazz invece è una musica romantica, che tocca il sentimento, non può essere una musica di virtuosismo costruita a tavolino. Bisogna suonare con le orecchie, non con gli occhi attaccati alla partitura.
GIANLUIGI TROVESI — Ribadisco che ai giovani mancano le occasioni per imparare a suonare sul campo. Qualsiasi artista andava a bottega. Giotto per diventare bravo è andato a bottega da Cimabue. Bottega voleva dire non solo studiare, ma applicare le conoscenze all’esterno.
Enrico Rava dice che preferisce una nota sbagliata e sghemba di Chet Baker piuttosto che il perfezionismo tecnico e acrobatico di tanti musicisti di jazz.
GIANLUIGI TROVESI — Ha toccato il punto. Basta ascoltare anche solo un tema suonato da Miles Davis per dire: «Dio esiste». La musica deve far ridere, piangere, divertire, ballare. È la sua forza.
GIANNI COSCIA — Parliamoci fuori dai denti. La tromba è finita con Miles Davis. Wynton Marsalis ha raggiunto una tecnica sulla tromba che nessuno ha, ma non ha creato nulla di nuovo. Mi chiedo: qual è l’apporto che ha dato lui alla creatività? E mi rispondo che lui è il compendio di tutti quelli che c’erano prima di lui.
GIANLUIGI TROVESI — Ci sono sempre stati gli stili nel jazz, dal New Orleans, allo swing al bebop, al free, ma ora che stile c’è? C’è (solo) una bravura collettiva. Nel jazz ci sono quelli che hanno costruito delle piramidi, come Louis Armstrong, Charlie Parker, e altri che invece non ne hanno avuto le capacità.
Lei cosa sente di avere costruito?
GIANLUIGI TROVESI — Piccole baite di montagna che peraltro alla prima nevicata crollano.
È in uscita il suo nuovo disco per Ecm. Ci dice qualcosa?
GIANLUIGI TROVESI — Sono sempre stato affascinato dalla musica antica. C’è un gruppo con strumenti barocchi guidato da Stefano Montanari, c’è musica di Henry Purcell, ci sono io…
Secondo voi il jazz è fermo?
GIANNI COSCIA — Non voglio certo dire che il jazz è morto. Lo si è sempre detto e scritto, ogni volta che usciva uno stile nuovo. La differenza è che i critici di allora gridavano alla morte del jazz quando cominciava a emergere ed affermarsi uno stile nuovo, un cambiamento. Io, se fossi in loro, ora griderei per l’esatto contrario: perché non c’è nulla di nuovo.
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