Con Benedetto XVI è scomparso l’ultimo dei papi che hanno partecipato al Concilio Vaticano II (1962-1965). Potrebbe sembrare una considerazione di dettaglio, ma può essere una chiave di lettura. Eletto pontefice da pochi mesi, nel dicembre 2005 l’ex-prefetto della Congregazione per la dottrina della fede tiene un importante discorso alla Curia romana. Al centro ci sono il Concilio e la sua ricezione. Il problema è quello dell’ermeneutica del Vaticano II, del suo inquadramento nella tradizione. Se la stagione post-conciliare è stata tormentata – spiega il papa – la responsabilità è dei teologi (e dei vescovi) che hanno promosso un’«ermeneutica della rottura».

All’assise ecumenica degli anni Sessanta, Ratzinger ha preso parte in qualità di perito, al seguito del cardinale Josef Frings. Ha contribuito alla redazione di alcuni dei documenti più importanti e sostenuto l’approvazione della costituzione Lumen gentium. La rottura con la maggioranza si manifesta già a lavori in corso, quando si tratta di approvare la costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Quel testo viene giudicato dal professore di dogmatica debole dal punto vista teologico ed eccessivamente schiacciato su una visione ottimistica della modernità secolarizzata. Negli anni Settanta Hans Urs von Balthasar, Henri de Lubac e lo stesso Ratzinger danno voce alla critica attraverso la rivista «Communio», che si contrappone a «Concilium», diventata il punto di riferimento delle teologie d’avanguardia. Sono gli anni in cui il mondo cattolico è attraversato dalle spinte del ’68 e dal felice incontro tra queste e la ricezione del Concilio, che a quella stagione di rivolta ha dato più di una pezza d’appoggio. Si sperimentano nuove liturgie; si discute di ecumenismo; si parla di chiesa povera e per i poveri, di partecipazione dei laici e delle laiche alla vita della Chiesa, di teologie della liberazione dallo sfruttamento.

In questa cornice, in cui cresce la contestazione al magistero, matura a Roma il giudizio negativo nei confronti di quella che viene percepita come una vera e propria crisi della Chiesa: una percezione rinfocolata dai dati sulla disaffezione degli europei nei confronti della religione e dalla caduta delle vocazioni. Paolo VI promuove senza successo il progetto di una Lex ecclesiae per disciplinare l’interpretazione dei documenti conciliari; i seguaci di mons. Lefebvre, che rifiutano il Concilio, arrivano allo scisma; «Communio» diventa il punto di riferimento per alcuni movimenti di reazione, tra i quali spicca Comunione e Liberazione. In questi ambienti si alimenta la convinzione di un cedimento, di un dissolvimento della Chiesa in un mondo sempre più lontano da Dio.

Sono queste le coordinate che dal 1978 guidano il tentativo di «riconquista» di Giovanni Paolo II, assistito nel compito da Ratzinger, che non esita ad usare gli strumenti a sua disposizione. Almeno in Europa, la «normalizzazione» beneficia del riflusso dell’onda dei movimenti e di un passaggio d’epoca che gradualmente consegna la discussione sul Vaticano II nelle mani degli specialisti. Ancora nel 1985 è vivace il dibattito che si sviluppa attorno al Sinodo dei vescovi, chiamato a fare un bilancio. Per quell’occasione esce un libro-intervista al card. Ratzinger molto duro sulla decadenza provocata da chi avrebbe travisato il Vaticano II «vero» nel nome del suo «spirito». In questa prospettiva non stupiscono i provvedimenti con cui Benedetto XVI ha cercato una riconciliazione con i lefebvriani. Più in generale, l’«ermeneutica della continuità» è stata contrapposta a una volontà di rottura della tradizione spesso e volentieri del tutto presunta: un’accusa rivolta contro chi rivendicava semmai, questo sì, una maggiore autonomia nell’interpretazione.

Dopo il Concilio, la paura della sinistra, e ancora di più di una sinistra interna alla Chiesa, è stata dunque tanto forte quanto fonte di visioni distorte che hanno inevitabilmente investito la memoria del Vaticano II. Con papa Francesco si è voltato pagina, ma sono rimaste le ferite.