Non ha gridato, naturalmente, «Io sono Giorgia», ma la sua biografia politica l’ha esibita orgogliosamente e per intero chiedendo la fiducia alla camera dei deputati, prima presidente del Consiglio donna della storia.

Una novità che è incomprimibile, esaltata dal linguaggio del corpo di chi le sta accanto sul banco del governo: uomini poco o tanto più anziani di lei in evidente imbarazzo nel ruolo di comprimari, pertanto prodighi di smorfie ammirate, pacche paternalistiche, bacioni.

Ma Giorgia Meloni insiste a farsi chiamare «il presidente», parla di sé al passato come «deputato» o «ministro» e per irridere chi la critica per questo si inventa un’inesistente «capatrena» (nello stesso discorso in cui, patriottica, dice di voler «promuovere la lingua italiana»).

uando deve replicare alla capogruppo del Pd però la guarda negli occhi, poggia entrambe le mani sul banco e con voce particolarmente bassa dice: «Mi guardi, onorevole Serracchiani, le sembra che io stia un passo dietro agli uomini?».

Non fa neanche mezzo passo indietro sulla sua biografia e su quella del gruppo di underdogs con il quale è arrivata al potere, assai ben rappresentato al governo e in parlamento attorno a lei.

Il problema non è il suo passato, ma «il pregiudizio politico» degli altri. Non è la sua, la loro («i miei fratelli d’Italia») storia fuori dall’arco costituzionale, ma il fatto che gli altri l’abbiano «relegata ai margini della storia repubblicana». Dunque, figurarsi, non ci sono esami da superare, né tanto meno abiure da proporre nel momento in cui prende in mano il governo del paese.

Giorgia Meloni

Non ho mai provato simpatia o vicinanza nei confronti dei regimi antidemocratici, per nessun regime, fascismo compreso.

Nel paese senza memoria la storia si può inventare: «Non ho mai provato simpatia o vicinanza nei confronti dei regimi antidemocratici, per nessun regime, fascismo compreso». Lei, giovane con la celtica al collo e ammiratrice di Mussolini, ha militato «nella destra democratica», tale sarebbe stato l’Msi di Almirante. Vittime, loro, dell’«antifascismo militante» che ha ammazzato innocenti «a colpi di chiavi inglesi» e ha «perpetuato l’odio della guerra civile», unico elemento che le importa ricordare della Liberazione.

Dell’antifascismo senza gli aggettivi della propaganda missina, cioè del fondamento della Repubblica, non parla. Cita il 27 ottobre, data di nascita di Enrico Mattei che le piace come campione dell’interesse nazionale – incidentalmente, era un partigiano – evita accuratamente il giorno dopo, il ben più ingombrante 28 ottobre.

IL DISCORSO di Giorgia Meloni è di destra non solo nei tabù, ma anche nei totem – lo sport contro le «devianze» e come antidoto alla «cannabis libera», i nemici stranieri che «perdono il loro tempo», la famiglia «nucleo primario» -, negli slogan – «non indietreggeremo, non tradiremo, non siamo gente che scappa» -, negli obiettivi- «semipresidenzialismo per una democrazia decidente» da fare anche senza le opposizioni, perché «non rinunceremo a riformare l’Italia» – nella continua ricerca del nemico malgrado la postazione dal quale viene pronunciato (c’è persino un richiamo a Bibbiano), è di destra finanche nel lapsus, il «tu» con il quale la presidente del Consiglio si rivolge al deputato nero Soumahoro, uno dei pochissimi con il quale sceglie di polemizzare (per poi scusarsi e chiuderla lì).

Ma quello di Meloni è anche un discorso che, restaurata con cura l’identità e rivendicato l’orgoglio biografico (un po’ anche una lezione alle timidezze di una lunga serie di predecessori di centrosinistra, velocissimi a buttare a mare storie assai più presentabili), si concede pienamente al liberismo asociale.

In questo la continuità draghiana è piena, i propositi di modifiche al Pnrr già abbandonati, la prudenza sull’immediato totale: «Il caro bollette ci costringerà a rinviare i provvedimenti che avremmo voluto nella prossima legge di bilancio».

A lunga gittata, la destra meloniana è tutta dentro il perimetro del laissez faire: «Il motto di questo governo sarà “non disturbare chi vuole fare”». Tanto che gli unici impegni scanditi con un po’ di chiarezza in campo economico sono quelli sul fisco, in perfetta continuità ideologica con il berlusconismo: «Pace fiscale», «tregua», «tassa piatta»; c’è tutto e viene ogni volta sottolineato dall’applauso convinto della maggioranza.

E così la «libertà», termine chiave del discorso non diversamente da come l’era stato nella retorica di Berlusconi 28 anni fa, dalla stessa postazione, è pienamente coerente con una visione non solidale, competitiva, in una parola meritocratica della società: «Un governo di centrodestra non limiterà mai le libertà esistenti di cittadini e imprese».

È il contrario della libertà progressiva costituzionale, che necessariamente limita i più forti. Ma la Costituzione è fuori da questa storia, da questo discorso.