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di Francesco Verderami
Le elezioni saranno la sagra delle liste. E il Pd sa che per tentare di competere dovrà raggruppare più forze nel «campo aperto» di cui ha parlato Letta.
Perché è vero che la sfida con il centrodestra si giocherà sul terreno politico, ma conterà soprattutto il calcolo numerico. E con il Rosatellum liste anche piccolissime potranno essere determinanti per far scattare un seggio proporzionale, far vincere un collegio uninominale o far aumentare le percentuali dei partiti maggiori.
Ed è partendo dalle regole della legge elettorale che è iniziato il lavoro al Nazareno, dove hanno ideato per l’alleanza uno schema «a quattro punte»: a Fratoianni di Sinistra italiana è stato proposto di riunire ogni possibile formazione a sinistra; a Tabacci del Centro Democratico è stata assegnata la delega per raccogliere naufraghi grillini e del centrodestra; ai Socialisti è stato suggerito di unirsi ai Verdi o convergere con Fratoianni. Mentre il Pd farà il regista e con la scritta «democratici e progressisti» posta sotto il simbolo, progetta di accogliere il gruppo di Speranza.
La scelta delle «punte» non è casuale: ognuna di loro guida un partito che non deve raccogliere le firme per presentare le liste alle elezioni. Una rogna non da poco, specie stavolta che le firme si dovrebbero raccogliere sotto gli ombrelloni. Il ruolo delle «punte» sarà anche quello di collettori sul territorio delle liste civiche, perché il 25 settembre servirà pure lo 0,1% per contrastare il fronte avverso. Specie al Senato, dove la ripartizione dei seggi avviene su base regionale e dove un ras locale può determinare il risultato.
Lo schema del «campo aperto» è assai vantaggioso per Letta. I voti delle forze che non supereranno lo sbarramento del 3% verranno infatti assegnati ai partiti maggiori. Cioè al Pd, che in cambio garantirà agli alleati delle candidature sicure. Così i dem confidano di aver gioco facile per uscire dalle urne come prima forza nazionale: un risultato che rappresenterebbe un’assicurazione sulla vita per il segretario in caso di sconfitta.
Tutto fatto? Niente affatto. Manca ancora la «quarta punta», cioè Calenda.
Il leader di Azione per ora resiste alle avance di Letta. «Calenda è un problema», sospira un autorevole dirigente dem: «È un problema gestirlo ed è un problema averlo contro». In base ai sondaggi, detiene un pacchetto di consensi tale da poter anche superare la soglia del 5% stabilita per chi va da solo. E diverrebbe un incubo per il Pd. Per evitarlo, Letta punta sulla Bonino e insiste perché entri a far parte dell’alleanza. La storica esponente radicale è propensa ad accettare. In tal caso cambierebbe tutto: +Europa non solo è alleata di Azione ma soprattutto ha l’esenzione per la raccolta delle firme. Se il connubio si rompesse, Calenda sarebbe chiamato ad un grande sforzo organizzativo in poco tempo.
Sarà un caso ma ieri il leader di Azione è parso più possibilista sull’accordo: «Quello che abbiamo proposto non è un rassemblement di centro ma una coalizione tra partiti, ognuno con una sua identità. Io posso rappresentare i liberaldemocratici e i popolari se arrivano persone da Fi che mi aiutano a farlo. Noi non abbiamo preclusioni a discutere di programmi, ma partiamo da lì». Il punto è che il Rosatellum non prevede in comune nessun candidato premier, nessun simbolo, nessun programma.
E allora il dibattito che si è aperto sull’«agenda Draghi» e sulla definizione da dare all’alleanza è pura accademia. Brunetta ha parlato di un «rassemblement repubblicano», con dentro tutti tranne i Cinquestelle. Fratoianni di una «coalizione progressista» con dentro tutti compresi i Cinquestelle. Ma l’argomento vero è come risolvere un calcolo aritmetico, nel gioco del dare avere sui seggi tra alleati. A meno di non puntare su un centro autonomo, come minaccia Renzi dinnanzi ai maldipancia del Pd. Che però non può permettersi defezioni.
A rompere l’enfasi oratoria da comizio elettorale e il clima da eroica battaglia contro i sovranisti ci ha pensato prosaicamente Mastella, che oggi presenterà il suo simbolo di «Noi di centro» e ieri ha avvisato il Pd di non far «prevalere veti», o domani — cioè il 25 settembre — «il suo risultato sarebbe compromesso». Il resto si vedrà nel giro di pochi giorni e si capirà la collocazione dei tre ministri ex forzisti e dell’ex grillino Di Maio. Questo «campo aperto» di Letta — come dice un rappresentante del centrodestra — «sarà pure politicamente un campo profughi ma può trasformarsi per noi in un campo di battaglia, specie al Senato, se non ci adeguiamo con uno schema simile».
Alle liste, alle liste. E al Nazareno va bene così. Intanto perché nel partito non si aprirà il dibattito sugli errori commessi prima e durante la crisi, e di cui si parla solo sottovoce. Eppoi perché «campo aperto» è meglio di «campo largo» che evocava l’epopea del Comintern.