di Bruno Ventavoli
Tu quoque, brute fili mi! Esclamò con addoloratissimo sdegno Cesare mentre il suo amato figlio adottivo lo pugnalava. Ma poiché il diritto romano prevedeva la severa poena cullei per i parricidi (richiusi in un sacco pieno di vipere), l’orribile crimine doveva essere diffuso. C’è anche il viceversa, come accadde all’alba del tempo, quando Crono divorò i propri figli preoccupato che questi gli usurpassero il potere. Ed è più o meno la stessa accusa che Simonetta Sciandivasci, alfiera dei millennial, ha mosso su Specchio del 10 luglio ai boomer, accusandoli di averle mangiato la vita, le energie, persino l’eros (virtuale). E soprattutto di voler comandare, grazie a un solo, assurdo, talento: l’età. Posto, dunque, che la dialettica generazionale e l’uccisione più o meno simbolica dei vecchi per prenderne il posto è antica quanto l’umano parto, si tratta solo di ristabilire il buon senso, perché far passare i boomer come i peggiori padri della Storia è un cicinin eccessivo.
Per quanto vaghe siano le definizioni, i boomer sono gli esseri umani nati negli anni Sessanta, quando la pace e la prosperità seguita alla devastazione immensa della Seconda guerra mondiale indussero i giovani innamorati a sfornare pargoli. Avendo abbandonato il confortevole utero materno nel ’61, appartengo anch’io alla categoria. È vero che ho trascorso un’infanzia con tre mesi di vacanze estive, potevo mangiare l’Ovomaltina, il formaggino Mio, la Nutella, pedalavo sulla Graziella, e sorridevo a Topo Gigio. Però, cara collega Simonetta Sciandivasci, non è tutto oro ciò che luccica (proverbio in voga presso i boomer e i loro nonni). Parlo in prima persona non per esaltare l’Io, ma per semplice conoscenza diretta. La lucidità dell’Erlebnis. La parte per il tutto. Una specie di sineddoche giustificativa. E pur ritenendo che ogni generalizzazione è una monata, vorrei confutare l’etichetta di generazione fortunata, rapace, esemplarmente orba. «Siete la prima generazione della storia – scrive Sciandivasci – che ha chiuso gli occhi sul talento di chi è arrivato dopo». Ommioddio! La prima? Non ti sembra di attribuirci una supremazia troppo gagliarda?
La mia generazione, oserei ribaltare, è stata in realtà abbastanza sfigata. Certo, chi visse ai tempi delle invasioni ungare del X secolo se la passò peggio. Ma faccio qualche esempio, giusto per chiarire. Gli anni Sessanta furono gioiosi. Lo raccontano i film, la musica, i Caroselli. Persino le eclissi di Antonioni, il sommo dell’angoscia incomunicabile, paiono gaudiose a posteriori. Per non parlare dei poveri ma belli Allasio e Salvatori, che mettevano voglia di vivere solo a guardarli. E che dire di Lollobrigida e De Sica, che si nutrivano di pane amore e fantasia? Purtroppo noi eravamo troppo piccoli per godere appieno di questa tracimante euforia nazionale. Quando esplose il Sessantotto, e tutta quella roba di fantasia al potere, di liberazione sessuale, di sradicamento dei tabù, vedevamo i fratelli maggiori partire con bandiere rosse in spalla e i genitori seguirli con (celata) preoccupazione e (progressista) condiscendenza, ma confondevamo Marx (Karl) con i Marx (fratelli) dei film in bianco e nero che la Rai centellinava il lunedì e il mercoledì sera. A noi sessantini sono toccati gli anni di piombo, il Sessantotto degenerato nel terrorismo, gli scontri armati ogni giorno a scuola, i gambizzati, le città grigie, il tramonto dell’Occidente, l’edonismo reaganiano (sai che goduria!).
E vuoi mettere gli strumenti di svago!? Noi figli degli anni Sessanta, per esempio, non abbiamo avuto neppure la televisione. Fino alle quattro del pomeriggio il cinescopio era nero pece. Niente di niente. E dopo tanta attesa, la Tv dei ragazzi propinava operine moralmente corrette, edificanti, militanti. Tant’è che Pippi Calzelunghe o Rintintin ce le rimembriamo come figate spaziali. Altro che effetti speciali, videoregistratori con i cartoni, streaming, eccetera eccetera… Se volevamo un filmino in casa bisognava convincere i genitori a montare il proiettore 8mm con traballante schermo (impresa disperata). Quando arrivò Happy Days andammo in estasi, ma ormai l’infanzia stava finendo insieme ai suoi sogni. Abbiamo avuto la fortuna di giocare en plen air come tanti piccoli ragazzi di via Pál. Ma vuoi mettere la noia? Il tedio? La fantasia priva di aiutini tecnologici? Abbiamo misurato gli abissi più ontologici della malinconia.
Poi siamo diventati grandi, abbiamo dovuto fare un anno di naja, laurearci in tempo, trovare partner fisso e posto fisso, nel quale eravamo troppo giovani per ottenere ruoli importanti (li stavano arraffando quelli della generazione prima, che avevano fatto il Sessantotto, ed erano scafatissimi nella conquista del potere e della dissimulazione onesta accettiana). Poi, quelli le poltrone se le sono tenute ben strette, e nel frattempo siamo diventati troppo vecchi. Ci siamo beccati le crisi economiche più devastanti della storia umana, che hanno eroso i nostri risparmi. I sommovimenti geopoliticomonetari hanno cambiato il potere d’acquisto dei nostri stipendi. I miei colleghi più anziani, seppur salariati, si erano comprati casa al mare e in montagna e alcuni persino in luoghi esotici. Io sono ancora qui che pago il mutuo della prima abitazione. Sempre loro, i colleghi più anziani, sono andati in pensione con principeschi bonus, anche prima dei sessant’anni, e un generoso ente previdenziale, l’Inpgi (la cassa dei giornalisti). Ora il suddetto ente è fallito e di andare in pensione con scivoli dorati manco a parlarne. Se non intervengono miracoli, mi toccherà aspettare i 67 anni, con i giovani che scalpitano e mi fan nascere sensi di colpa perché non «insegno a volare, nuotare, amare» (Sciandivasci, op. cit.). L’enorme debito pubblico che grava sulle nostre spalle è lievitato negli anni Ottanta, ma io che c’entro? Avevamo più o meno vent’anni e invece di goderci gli iperbolici rendimenti dei Bot sudavamo lavoretti per pagarci la benzina ed essere autonomi dai genitori…
L’elenco potrebbe continuare. E sarebbe fatica sterile. L’unica cosa certa è che stento a riconoscermi nel quadro egoista, predatorio, insolentito, inquinante, greve, gretto, protervo, conservatore (Sciandivasci, op. cit.) che i millennial dipingono di noi. E quindi ridurre la normale, eterna, animalesca, lotta generazionale a uno scontro unico e irripetibile tra loro e noi non serve granché. E men che meno serve incolparci di non fare i «maestri». (Abbiamo visto troppi cattivi maestri e troppe buone intenzioni lastricare le strade del diavolo per aver voglia di salire in cattedra).
Il problema però esiste. Ed è quello del futuro. Il futuro comune, di noi, loro, e quelli che verranno dopo di loro. Il clima, l’allungamento della vita media, il divario tra ricchissimi (pochi) e poveri (sempre di più), la gestione della materie prime, che non è infinita, e otto miliardi di persone che vogliono consumare e godere giustamente di alti standard di benessere non sono compatibili con miniere sempre più esauste. Sono questioni gravissime, vitali, esplosive. E devono trovare una soluzione prima che il mondo vada in tilt. Queste sono le questioni urgenti. E non possono essere risolte elencando le colpe (peraltro psicoanaliticamente immense) dei padri. Ci sono anche i bisnonni, i cugini, gli amici degli amici. Edipo non serve. Serve piuttosto la politica. Serve l’impegno. Servono scelte giuste e importanti del privato che diventa pubblico (non social!). Sono categorie chiare a molti di noi boomer. Devono diventarle anche per voi, millennial. Altrimenti sarà un disastro. Noi che siamo vecchi (e maschi) fra poco ce ne andremo in un metaverso più paradisiaco. L’inferno resterà a voi, ai vostri figli, e figli dei figli. Fino alla settima generazione. Se mai arriverà.