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26 Luglio 2024Attualità | Turismo
Mai come quest’anno abbiamo assistito a pubbliche manifestazioni di odio nei confronti dei turisti. Reazioni comprensibili a un problema che si fa sempre più grave, ma che non è così che risolveremo.
«Cause everybody hates a tourist», tutti odiano i turisti, soprattutto «quelli che pensano che tutto sia così divertente». La migliore descrizione del clima che si è creato oggi intorno al turismo l’aveva data Jarvis Cocker dei Pulp in “Common People”, la storia della ragazza ricca che voleva scoprire come viveva la gente comune a Londra e lui non sapeva come dirle che, insomma, quello che lei trovava così interessante in realtà faceva schifo, che l’autenticità – l’illusoria materia prima alla base dell’esperienza turistica – è un’idea della vita piuttosto inutilizzabile. Quasi trent’anni dopo, il turista è diventato la figura contemporanea perfetta da odiare, deridere o entrambe le cose, e la parola overtourism è ormai entrata non solo nel linguaggio comune ma anche nel dibattito pubblico italiano. In molte località sotto pressione turistica c’è un mood tra il fastidio collettivo e la rivolta, le pistole ad acqua a Barcellona, i droni sulle spiagge in Grecia, i cortei a Palma di Maiorca, le invasioni dei punk sull’isola di Sylt. Odiare il turista però vuol dire anche odiare un po’ se stessi, il turismo è una specie di oppressione a turno, un weekend rovini la città di qualcuno, il weekend dopo qualcuno rovina la tua.
È facile odiare i turisti, oggi, perché sono un sintomo ambulante delle peggiori fratture della nostra società. Se potessimo tracciare con una bodycam la giornata di un visitatore a Roma, Firenze o Barcellona come fanno i biologi con i falchi pellegrini mentre cacciano, vedremmo che la specie umana è prossima alla bancarotta culturale. La verità, però, è che non è colpa dei turisti. Quella bruttezza è un prodotto della società della stanchezza. Che sia un city break, un’avventura nel mondo, o tutto quello che c’è in mezzo, se siamo degli adulti nel mondo contemporaneo la certezza che ci accomuna è che partiremo già stanchi. Se volessimo ancora affidarci all’arcaica e demenziale distinzione tra turista e viaggiatore, questa sarebbe la principale differenza: il viaggiatore parte riposato, ha potuto dedicare tempo a leggere, prepararsi, comprendere lo spirito del posto e le basi della sua lingua, come mescolarsi con garbo e gentilezza, senza farsi troppo notare. Se può farlo, è perché probabilmente i suoi genitori hanno di recente venduto un quadro di Tiziano o Tintoretto, non ha nessuna incombenza da lavoro salariato, e ha il privilegio del tempo che serve per studiare come non sembrare un imbecille a cui è giusto puntare contro una pistola ad acqua.
Il turista invece tutto l’anno vive inseguendo la sua stanchezza, non ha tempo capire, studiare, imparare, è generalmente esausto, e quindi si affida a tutto quello che è già pronto, Tripadvisor, la Seo universale delle dieci cose da non perdere, e così via. La regola base, come nel cibo, è che meno sforzo ti richiederà, più sarà pronto, precotto, pre-confezionato, più sarà predatorio per qualcun altro. La ricerca delle stesse foto, degli stessi hashtag, degli stessi quartieri, delle stesse esperienze autentiche, la povertà delle risorse intellettuali con cui il turista si mette in ridicolo è frutto di tante cose, ma soprattutto lo è di quanto poco tempo siamo in grado dedicare alla creazione di un riposo di valore. L’estrattivismo dell’overtourism non è solo la predazione delle risorse turistiche, ma anche della stanchezza senza scampo dei turisti. Odiare i turisti è una soluzione individuale a un problema sistemico. Tu in realtà odi il capitalismo, che però è più difficile da odiare, richiede più risorse, siamo sempre nello stesso loop, quindi prenotiamo un biglietto Ryanair e proviamo a non pensarci più.
Uno degli scrittori che più hanno riflettuto su questi temi è il romanziere inglese Will Self. Self scrive che uno dei nostri problemi è quanto siamo disaccoppiati dalla geografia fisica dei luoghi. Il suo antidoto sono lunghe camminate paradossali, una volta è arrivato a New York, all’aeroporto JFK, e ha camminato da lì fino a Manhattan per quasi quaranta chilometri. Dice che questo è l’ultimo livello di vera esplorazione che rimane all’essere umano, che lui ha visto molto di più del mondo camminando in questo modo che esplorando foreste remote, e probabilmente ha ragione, ma l’originalità di esperienze così bizzarre ha il pregio di mettere a nudo la realtà e il difetto di non essere scalabile, di non servire a niente.
La verità è che un mondo senza turismo sarebbe un mondo peggiore. Conosco i profeti di questa idea, alcuni sono miei cari amici, apostoli della prossimità assoluta, del conoscere con precisione ogni pozza e ogni stagno nel raggio di dove si può arrivare a piedi o in bici e lasciar perdere tutto il resto. È un esercizio di attenzione bello, ha una sua nobiltà, ma è come la psicogeografia di Will Self: non va bene per tutti. Abbiamo ancora bisogno dell’esperienza dell’altro che ci offre il turismo, e di fare esperienza dell’altro a casa nostra, di vedere da fuori e di essere visti da fuori, dello scambio di fluidi culturali alla base del turismo.
Stiamo provando in ogni modo a sfuggire all’idea che l’unico turista responsabile sia quello che sta a casa sua, il Web è pieno di articoli su come essere turisti migliori. Probabilmente, su questo livello delle soluzioni individuali, il riassunto di quei consigli è superare la scissione tra quello che siamo quando viaggiamo e quello che siamo quando non viaggiamo. Un modo per dire: le cose migliorano se non si è completamente stronzi, se ci si comporta come esseri umani accettabili anche a casa degli altri.
Basterebbe? Non basterebbe, certo che no, le soluzioni individuali finiscono sempre con l’essere puntelli del sistema. Chi vuole un cambiamento deve guardare, come sempre, nella direzione della partecipazione politica. Le rivolte a cui stiamo assistendo a vari livelli in Europa (e non solo) hanno il potere, o almeno la possibilità, di riformare il turismo, soprattutto la sua pretesa di ingovernabilità, di essere fuori da ogni giurisdizione pubblica, grazie al fatto di essere ormai gestito solo da piattaforme digitali globali. Non è certo mettere in discussione il capitalismo, ma almeno la sua pretesa più tossica: l’assenza totale di regole. Città, luoghi, comunità, hanno il diritto di metterle, delle regole. Le lotte per porre dei limiti all’estrattivismo turistico stanno anzi diventando una delle palestre politiche più interessanti nei paesi democratici. Quelle battaglie tengono insieme tutto, la lotta contro le rendite consolidate, la denuncia delle speculazioni, con la possibilità di vedere effetti anche nel breve termine, che ad altri tipi di intervento politico è preclusa (vedi le battaglie per il clima).
La derisione del turista è ingiusta, le lotte contro l’overtourism hanno il pregio della concretezza, di dare la sensazione che lo status quo non è ancora così consolidato da non poter essere smosso, le politiche abitative anti-affitti brevi come quelle di Barcellona dimostrano che c’è almeno un margine di azione. Alcune idee sono giuste, altre sono inutilmente repressive. Il punto non è regolamentare ancora di più lo spazio pubblico (sindaci che decidono dove si può mangiare e dove no, o mettono i biglietti per visitare le loro città), ma avere il coraggio di governare l’attività privata. Il turismo oggi non solo contiene una domanda di politica, è anche un banco di prova utile sull’efficacia stessa della politica, un test per l’idea che la nostra società non ha ancora superato il punto di non governabilità. Basta non mettersi a odiare i turisti, loro sono solo un sintomo, e loro sono soprattutto noi, in un altro momento dell’anno.
Di overtourism abbiamo parlato anche in una puntata del nostro podcast Stilnovo. Se volete recuperarla, la trovate su Spotify, Apple Music e Audible.