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27 Gennaio 2025A Parigi, Musée du Louvre, “Figures du Fou. Du Moyen Âge aux Romantiques”, a cura di Élisabeth Antoine-König e Pierre-Yves Le Pogam Oltre trecento pezzi (dall’acquamanile a Holbein…) descrivono il fenomeno, centrale nella cultura europea tra XII e XVI: finché la modernità non inventerà l’”alienato”, il controllo e anche la cura…
PARIGI
«Le fou est partout». Questo il motto della bellissima esposizione del Louvre organizzata da Élisabeth Antoine-König e Pierre-Yves Le Pogam, aperta fino al 3 febbraio (catalogo musée du Louvre éditions/Gallimard, pp. 448, ill. 400, € 45,00), che vuole raccontare la storia di una figura proteiforme diffusasi in Europa tra XII e XVI secolo con assoluta centralità. Impresa difficile, che ha il merito di non abbandonarsi a facili equazioni (arte/follia), ma che invece si fonda su un rigoroso studio delle fonti, storico-documentarie e letterarie, e sull’analisi dei tantissimi pezzi esposti, ben 327. Mostra d’attualità, sottolineano i curatori, perché la nostra è epoca di crisi profonde, come lo era quella in cui Sebastian Brant pubblicò a Basilea, nel 1494, la sua Narrenschiff, a suo tempo il libro più venduto dopo la Bibbia. Su quella nave Brant immaginava imbarcarsi gli uomini, folli e inconsapevoli, per partire alla deriva di un viaggio senza meta. Quello di Brant è l’annuncio di un autunno del Medioevo, di un’epoca di ‘catastrofi’ che la ragione non sa spiegare. Mancano poco più di vent’anni all’affissione delle tesi di Wittenberg, ai massacri dei contadini e al Bildersturm (lo stesso Lutero sarà attaccato dai cattolici come pazzo).
Da quel 1494 la figura del folle, già ben impiantata nel mondo cortese, conoscerà un’enorme popolarità, attraverso una messe di libelli, incisioni, oggetti quotidiani, mascherate carnascialesche. Pochi anni dopo Erasmo da Rotterdam annuncerà un’era nuova con il suo Moriae encomium (Parigi 1511), opera in cui la lucidità umanistica dell’ironia e del paradosso supererà le dicotomie teologiche, mostrando che nell’errore può risiedere la felicità e costruendo la figura del ‘morosofo’, il folle-filosofo: osservare in mostra il ritratto di Erasmo di mano di Holbein, a fianco degli esemplari antichi della sua opera, è un’emozione che vale il viaggio. Ed è affascinante pensare che artisti come Dürer e Holbein si siano formati meditando proprio sulla follia, il primo approntando (ormai pare accertato) molte xilografie per il Narrenschiff, lo svizzero annotando con minuscoli disegni i margini dell’esemplare Myconius dell’Elogio nel 1515.
In francese la parola fou è polisemica, e appartiene a un universo in cui i piani di realtà, finzione e immaginario si confondono. Il termine deriva da quel follis che indica in primo luogo un contenitore vuoto, di norma sferico, in cui l’aria si agita senza una direzione precisa. Non a caso si è accolti in mostra da un personaggio che suona una gonfia cornamusa, scultura del XVI secolo proveniente dalla cattedrale di ’s-Hertogenbosch (patria di colui che dipingerà proprio la Nave dei folli), e che richiama le gargouilles di Viollet-le-Duc. Infatti l’immaginario neogotico recupererà la figura del fou: lo farà Victor Hugo con Quasimodo, ma ancor più con Le Roi s’amuse, pièce che appena rappresentata nel 1832 venne censurata, perché metteva in scena attraverso il buffone di corte di Francesco I, Triboulet, un deciso attacco alla monarchia di Louis Philippe.
Nella prima età moderna il fou/bouffon è infatti anche l’uomo sagace che anima le corti, il finto pazzo di cui si tollerano le facezie e le allusioni audaci che svelano un re nudo. Il fou è figura contigua al potere: nel 1514 Massimiliano I d’Asburgo inviò in dono a Enrico VIII d’Inghilterra un’armatura in vesti di buffone; ne sopravvive lo splendido elmo con corna d’ariete, maschera dal riso ghignante, inquietante come un automa settecentesco. Ma anche i veri dementi sono ricercatissimi dai principi, che li vogliono come consiglieri perché considerati ‘puri di spirito’ e dunque capaci di scorgere verità nascoste. Altre volte i ruoli si invertono: Giovanna la Pazza compare qui immortalata da un notevole ritratto attribuito a Juan de Flandes, che le dona i tratti dolcissimi della malinconia.
La follia invade ogni campo dell’umano, dalla religione con i ‘pazzi di Dio’ che predicano l’imitatio Christi (in primis Francesco), all’amore. Nel Medioevo dell’Ovidio moralizzato e dei romanzi cavallereschi questo sentimento è una malattia che fa perdere il senno. Tra Due e Trecento si diffonde la storia di Aristotele sopraffatto d’amore per la giovane Fillide, già amante del suo discepolo Alessandro il Macedone, assieme all’icastica immagine di lei che atterra e cavalca il filosofo: lo splendido acquamanile del Metropolitan (Paesi Bassi meridionali, ca. 1380) mette in parodia questa leggenda che condannava l’inclinazione insensata e pericolosa dei vecchi per le giovani fanciulle, e al contempo alludeva al potere erotico delle donne, capaci di ‘domare’ anche il più grande dei filosofi.
Tra Medioevo e Quattrocento la follia, anche se condannata sul piano morale, consente una libertà d’espressione che funziona come coscienza e catarsi collettiva. Il fou è necessario alla tenuta dei rapporti sociali e, a differenza dei lebbrosi e degli ebrei, partecipa di una forma di integrazione basata spesso sul meccanismo dell’inversione; charivaris, carnevali, fêtes des Fous, permettono l’esplosione delle pulsioni e il rovesciamento dei ruoli, ma non intaccano l’ordine sociale e morale. Talvolta però questa dinamica di controllo non tiene: l’«epidemia di pazzia» che colse la città di Strasburgo nel 1518, ricordata da Paracelso, portò intere folle a scatenarsi in danze ossessive e impose una sorta di esorcismo di massa. In tutti questi riti collettivi il fou è presente, protagonista od osservatore distaccato. È un attore sociale essenziale, e per questo soggetto molto raffigurato. Nel dipinto del pittore tirolese Max Reichlich (ca. 1520) il folle, abbigliato nel tipico costume dai colori sgargianti, ci rivolge un sorriso sforzato mentre porta alla bocca il contenuto di un uovo rotto, ciò che resta di un embrione di pulcino, il cui sangue gli imbratta le labbra e le mani; poiché nel mondo germanico si riteneva che i folli nascessero da un uovo, quell’immagine esprime la potenza della follia che si alimenta di se stessa (rifiutando pane e vino eucaristici posati in primo piano), rinforzata dal sorriso d’approvazione del volto quasi vivo della marotte, alter-ego del fou.
Tutto cambierà con la Controriforma e con l’impiantarsi degli stati nazionali. Con le nuove forme di organizzazione sociale non ci sarà più posto per il folle ma solo per la follia: una patologia, antitesi della salute del corpo statale, d’ora in avanti controllata e respinta ai margini. Il fou scompare dalla scena. Con la Rivoluzione francese e la nascita della psichiatria, egli lascerà il posto all’alienato, che tuttavia adesso ha un nuovo diritto di cittadinanza: può e deve essere curato. Alla Salpetrière i medici studiano le ‘manie’, e per classificarle non esitano a chiedere aiuto alla sensibilità degli artisti, basti pensare alla serie di Géricault. Intanto l’Ottocento romantico ha forgiato la figura dell’artista tormentato, sempre più incline a guardare dentro di sé. Ci congeda dalla mostra lo stupefacente autoritratto di Gustave Courbet noto come Le fou de peur, conservato a Oslo (1844-’48): versione alternativa del più noto Désespéré (tela da cui l’artista non si separò mai) e forse ancor più inquietante: il giovane pittore, abbigliato come un fou medievale, si libra al di sopra di un baratro, gouffre che in quegli stessi anni Hugo evoca nelle sue Contemplations.
Sebastian Brant scrisse che il folle è uno specchio «in cui ognuno potrà vedere il proprio vero volto». Il fou ci cattura perché in lui scorgiamo una parte di noi. Come ci ha insegnato Franco Basaglia, «la follia è una condizione umana, come lo è la ragione (…) La follia ha origine nella vita».