
Franco Lo Piparo, via dalla illusione siciliana
2 Marzo 2025
L’enigma della poesia e la resurrezione della parola
2 Marzo 2025ANTICIPAZIONE
Professore universitario attento ai suoi studenti o protagonista con Silvestrini degli accordi che sancirono la libertà religiosa, il cardinale Zuppi sottolinea la visione e la dedizione agli altri del politico cristiano Carenti nel presente, fatto di personalismi
Chi è stato Aldo Moro, che cosa ci dice oggi quest’uomo «buono, mite, saggio, innocente ed amico» – nelle parole di Paolo VI – che ha offerto la sua vita per tutti noi? Fra i giovani la sua conoscenza resta confinata tutt’al più alla vicenda del rapimento e della sua tragica fine. Ma in realtà anche noi che per ragioni anagrafiche abbiamo avuto modo di vederlo all’opera sulla scena pubblica, non abbiamo chiaro chi sia stato veramente e cogliamo poco l’attualità del suo pensiero. È questo che ci viene in soccorso, ancora di più in questo periodo così buio: «Se fosse possibile dire: “saltiamo questo tempo e andiamo direttamente a domani”, credo che tutti accetteremmo di farlo. Ma non è possibile. Oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità. Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi al tempo stesso. Si tratta di vivere il tempo che ci è dato vivere con tutte le sue difficoltà». Questa frase del suo ultimo discorso sembra scritta per noi, oggi. Proprio per amore dei giovani e dei suoi studenti, ai qua li si dedicò fino all’ultimo giorno, Moro fu soprattutto un operatore di pace. Ricorrono quest’anno i cinquant’anni dagli accordi di Helsinki. In piena Guerra fredda, da ministro degli Esteri si era impegnato a favorire la distensione in Europa e la non proliferazione degli armamenti. Per un disegno della Provvidenza si trovò nell’estate del 1975 a presiedere quegli incontri senza precedenti – con la contemporanea partecipazione, oltre che degli Stati europei, e per la prima volta anche della Santa Sede, di Stati Uniti e Russia – nella duplice veste di capo del governo italiano e presidente di turno della Comunità europea. Fu criticato per aver stretto la mano al leader russo Leonid Brežnev, ma lui rispose, fiducioso, che il seme messo con la firma di quella Dichiarazione avrebbe dato frutti in seguito. Grazie alla lungimiranza di un altro protagonista di quegli incontri, il cardinale Achille Silvestrini, fra gli impegni sottoscritti a Helsinki dalle grandi potenze ci fu quello per la libertà religiosa. Nel 1978 dei “tre papi”, poi, ci fu un passaggio ideale del testimone fra Moro, assassinato dalla Brigate rosse, e Karol Wojtyła, il papa polacco subentrato al soglio di Pietro. Nel primo decennio di Pontificato, questo pontefice si rivolse più volte a Mosca per chiedere il rispetto dei diritti umani e della libertà religiosa richiamando proprio la Dichiarazione di Helsinki. Questi pronunciamenti fecero parte del lungo processo storico che nel 1989 porterà alla caduta del Muro e al concretizzarsi di tante speranze per il futuro del nostro continente che oggi sembrano svanite.
Per tornare a guardare avanti con fiducia occorre riprendere quel seme gettato cinquant’anni fa. Guardando a Moro senza fermarsi ai 55 giorni della prigionia, vediamo con chiarezza
di che cosa è carente oggi la politica, e non solo nel nostro Paese: c’è bisogno di una “visione” e non di un cristianesimo professato solo a parole, ma di cristiani capaci di testimoniarlo nei fatti. Moro fu uno dei tanti che, dopo la Guerra, mentre facevano altro (lui era un giurista e un dirigente di Azione cattolica) entrarono in politica su sollecitazione dei loro vescovi. E se divenne, giovanissimo, punto di riferimento nell’Assemblea costituente, non fu per la sua competenza e abilità dialettica, doti di cui certo non difettava, ma per aver messo in gioco la sua esperienza cristiana, esercitando il dialogo non come rinuncia alla testimonianza, ma – viceversa – come condivisione di un patrimonio umano e culturale che non voleva restasse rinchiuso in un comodo recinto. Il divorzio cui oggi assistiamo fra cultura e politica, una politica che vive troppo spesso del giorno per giorno e di leadership personalistiche, è il contrario di quel che Moro testimoniò, come l’uomo saggio del Vangelo che ha costruito la sua casa sulla roccia.
« Aldo Moro – ha detto papa France sco alla recente Settimana sociale di Trieste – ricordava che “uno Stato non è veramente democratico se non è al servizio dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona umana, se non è rispettoso di quel le formazioni sociali nelle quali la persona umana liberamente si svolge e nelle quali essa integra la prol’ascolto pria personalità”». La centralità della persona umana – dall’amore per i suoi studenti, per la sua famiglia, fino all’amore politico, per dirla con papa Francesco, verso tutto e tutti – fu l’essenza della sua vita, prima ancora di diventare il perno della nostra Costituzione. Gli accordi di Helsinki non spuntarono dal nulla, basta leggere in parallelo lo straordinario discorso al Palazzo di Vetro di Paolo VI del 1965, in cui lanciò il grido « Mai più la guerra!», e quello che Moro pronunciò da ministro degli Este ri nell’ottobre 1969 all’Assemblea delle Nazioni Unite, spaziando dal conflitto in Vietnam a quello in Medio Oriente, dall’Africa decolonizzata alla Guerra fredda. Egli propose un “multilateralismo” della pace basato sull’azione diplomatica, indicando, fra l’altro, con lungimiranza, la necessità di un pieno ingresso della Cina nella comunità internazionale. Dopo una fase in cui aveva scelto di stare ai margini, dedicandosi all’ascolto dei “tempi nuovi” del Sessantotto, si sentì sollecitato dall’opportunità che gli fu offerta di dedicarsi, da ministro degli Esteri, a un impegno che gli consentiva di rispondere in prima persona all’aspirazione di giustizia e pace universale che vedeva presente nella contestazione giovanile. Per Moro libertà e dovere, due parole in apparente contrasto, coincidevano nella condivisione della Croce di Cristo, essenza della sua spiritualità cristiana appresa dalla madre. Di volta in volta, si mise al servizio dei segni dei tempi. Le tante svolte di cui fu protagonista non erano frutto di alchimie politiche, ma espressione di una visione cristiana che coglieva in ogni singolo caso la positività del reale e della democrazia, che della realtà dovrebbe essere specchio fedele. Moro si dedicò alla riconciliazione anche della nostra comunità nazionale. È interessante come Picariello approfondisce, in questo libro, riservato ai nuovi movimenti cattolici nati durante la stagione della contestazione giovanile dei primi anni Settanta e anche in seguito. Egli conobbe la nascente Comunione e Liberazione nella sua università e partecipò spesso alla messa che radunava i membri di quel movimento. Intervenne anche, a sorpresa, a qualche loro incontro. Fece lo stesso anche con la Fuci, l’associazione di cui era stato presidente: prendeva appunti, seduto fra il pubblico, da semplice ascoltatore. A Roma guardò ai tanti gruppi cattolici che, impegnati nella caritativa, cercavano in quegli anni fra gli “scarti” del boom economico il volto di Cristo, come facevano gli amici della nascente Comunità di Sant’Egidio fra i baraccati a Ponte Marconi, all’ex cinodromo. Vedeva con chiarezza che tanti altri ragazzi partendo dalla stessa aspirazione erano stati catturati dall’ideologia e dalla violenza, fino a dar vita alla “colonna romana” delle Br, come ad esempio Valerio Morucci, il brigatista che al telefono annunciò a Franco Tritto che il cadavere dello statista si trovava in via Caeta ni, nella tristemente famosa Renault 4.
Senza mai chiedere appoggi o consensi, invitava i giovani, come ricorda Agostino Giovagnoli, a non trascurare l’impegno politico, per poter migliorare un mondo tanto lontano dai nostri ideali pur continuando le diverse esperienze in cui si era impegnati. Così, ai giovani della Dc chiedeva di tener si in contatto con i coetanei dei movimenti cattolici, per un reciproco arricchimento e una testimonianza cristiana più incisiva. Un messaggio che Aldo Moro lascia a una Chiesa che vive in questo Giubileo del 2025 la chiamata alla speranza contro il veleno della disillusione e del cinismo: la visione di una sinodalità operosa e aperta alla realtà, capace di restituire fiducia in un’epoca che ne ha un enorme bisogno.