Salvo una auspicabile ma poco probabile smentita, è piuttosto facile che al Consiglio europeo di giovedì prossimo i paesi del Vecchio Continente si comporteranno, al solito, come i polli di Renzo. Ciascuno a inseguire il proprio “particulare”, a ribadire litanie obsolete che da troppo tempo sono la dimostrazione plastica di posizioni inconciliabili. Se si è evitata sinora una spaccatura verticale è per il tabù dell’irreparabile dopo tanta retorica spesa su una condivisione d’intenti di fatto ipocrita.
Il dogma dell’unanimità delle decisioni su materie delicate è la camicia di forza che impedisce l’audacia necessaria per fare i passi risoluti verso un’integrazione che non sia solo della moneta, ma anche della difesa, della politica estera, della fiscalità. Gli Stati Uniti d’Europa, nel concreto, trasvolati in una sorta di mito utopistico inseguito e mai raggiunto come nel famoso quadro dell’asino a cui viene sventolata davanti agli occhi una carota che non raggiungerà mai per farlo correre.
In mezzo al fiume
L’Europa unita per davvero. Romano Prodi usò una metafora per contrastare le innumerevoli critiche a Bruxelles: «Siamo in mezzo a un fiume, guardiamo la riva d’approdo per sottolineare quanto manca e dovremmo invece guardarci alle spalle per vedere quanto di buono c’è nel percorso già compiuto». Aveva ragione, ma si era ancora negli anni Dieci del millennio e si potevano ancora vagheggiare le magnifiche sorti e progressive del sogno dei padri fondatori che prima o poi sarebbe giunto a perfezionamento.
Negli attuali tempi, con la storia che ha fatto una capriola, in mezzo a quel fiume c’è una forte corrente paralizzante, bloccarsi non sarebbe un errore, sarebbe un crimine. E sorge il dubbio che la via più semplice per raggiungere l’altra sponda non sia la più retta, ma la più tortuosa.
C’è da chiedersi come mai, davanti alle urgenze degli eventi epocali, dobbiamo ancora tenere per conto le paturnie di un Orbán o di un Fico, le «perplessità» di una Meloni, che «tentenna», emula di Totò, tra una fedeltà di cuore a Trump e gli obblighi a cui la lega la geografia. Quando sarebbe meglio un colpo di acceleratore, una fuga in avanti di chi ci sta, già definiti «i volenterosi», e gli altri seguiranno se lo vorranno, se non preferiranno rimanere schiacciati dai piccoli egoismi sovranisti.
Il nucleo possibile di una quarta potenza, dopo Usa, Cina e Russia, è piuttosto munito, sarebbe un’Europa a geometria variabile con l’aggiunta di qualche rappresentante esterno che deplora la strada intrapresa da una Washington diventata ostile e inaffidabile. Il vertice di domenica a Londra ne ha cominciato a delineare i confini.
C’è il Regno Unito, deluso dalla “relazione” non più così “speciale” con gli Usa e che porta in dote le sue 225 atomiche. Da aggiungere alle 290 della Francia: Parigi è stato sempre l’alleato più riottoso nella Nato, indisponibile ad accettare i diktat provenienti da Oltreoceano quando non li condivideva.
La Germania di Scholz e del futuro leader Merz è sulla stessa lunghezza d’onda sul tema cruciale dell’Ucraina, si dice pronta a stanziare centinaia di miliardi per riarmarsi nel mondo dove prevale la logica della forza. La Spagna di Sànchez farebbe pure parte della squadra, cui non mancherebbe l’apporto della Polonia di Tusk così come dei Baltici e altri Stati del quadrante nord-orientale del continente.
Il peso della demografia
Contati per difetto, sarebbero rappresentativi di oltre 300 milioni di persone, il doppio dei russi e quasi il numero degli americani, un conto importante visto che la demografia è elemento fondamentale della politica.
Il Canada, comunque membro del Commonwealth, ha dei motivi di ostilità precisi con Trump che ne vorrebbe annettere una parte e ha imposto dazi, il premier Justin Trudeau aggiungerebbe i suoi 40 milioni di cittadini. E senza contare la Turchia, presente a Londra, ma con la remora di un altro suo progetto, la creazione di un impero neo-ottomano. Se la squadra delineata fosse compatta, si potrebbe trattare con ben altre carte, sia con Trump sia con Putin.
È assente l’Italia dall’elenco. Macron la reclama come elemento indispensabile e così dovrebbe essere se non altro per le medaglie di membro fondatore dell’Europa. Ma la nostra premier, cui evidentemente non sono bastati i filmati con l’Ia su Gaza e la bastonatura in diretta tv di Zelensky, pur di non scegliere si è rifugiata nei contorsionismi del lessico. Lei che, per biografia, ci aveva abituato a non averne di peli sulla lingua.