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“Il Pd è ovunque”: così Wolfgang Munchau – influente analista politico conservatore, che scrive per il sito “Eurointelligence” – ha sintetizzato l’influenza che il partito guidato da Enrico Letta, almeno finora, ha sulla percezione europea della politica italiana. Spostandoci in casa nostra, si potrebbe dire che “il Movimento 5 Stelle non è in nessun luogo”. I ripetuti flop nelle elezioni locali e le tormentate esperienze amministrative in qualche grande città, lo storico veto dei fondatori Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio rispetto alla creazione di una struttura organizzativa sul territorio (e forme di democrazia interna meno evanescenti dei MeetUp e delle consultazioni online) ne hanno fatto, per anni, una sorta di fantasma, un logo che ritorna ciclicamente sul mercato.
Anche stavolta le elezioni politiche hanno confermato questa norma: e ha avuto gioco facile Giuseppe Conte a lanciare proclami trionfalistici già venerdì 23 settembre, nella manifestazione di chiusura della campagna elettorale, in barba alla religione nazionale della scaramanzia: “Ci avevano dati per morti, ancora una volta si sono sbagliati!”.
Il Movimento ha realizzato un prodigioso recupero rispetto alle intenzioni di voto dei sondaggi estivi: dal 10% medio di fine luglio al 15 abbondante dei risultati reali – mentre scriviamo ancora da definire nei dettagli decimali –, con il dato aggiuntivo della conquista diretta di un corposo numero di collegi uninominali, che fino a pochi giorni fa erano considerati impossibili da strappare alla destra. Fermo restando il valore dei numeri assoluti, almeno altrettanto significativi delle percentuali: il M5S, rispetto ai dati del 2018, ha lasciato sul terreno milioni di voti; ma era una stagione che oggi appare lontanissima, quando Conte era ancora l’oscuro docente universitario destinato, originariamente, a fare il ministro della Pubblica amministrazione in un ipotetico governo Di Maio.
Le urne, quindi, riconsegnano al Paese la terza, forse la quarta edizione del Movimento-camaleonte, una versione che si presenta quasi come un “foglio bianco”, un progetto ancora incompiuto, a volere essere generosi. È il partito di Conte, non più il M5S – hanno ripetuto ossessivamente gli scissionisti draghiani, guidati da Luigi Di Maio –, rendendo un involontario servizio agli ex colleghi e confermando il fatto che il vecchio Movimento ha, per l’ennesima volta, cambiato pelle.
Dall’anti-casta ai governi con tutti
Il primo Movimento fu quello di Grillo e del “tutti a casa”, lo slogan più qualunquista, che interpretava in senso “anti-casta” la rivolta popolare sia contro lo screditato berlusconismo al tramonto, sia contro la deludente conversione dei progressisti alle ricette antisociali dell’austerità europea. Il secondo fu quello dell’ubriacatura governista, sballottato fra i no iniziali del Pd ai grillini e dei grillini al Pd, poi negli estenuanti negoziati a tre con Matteo Salvini e il Quirinale per il primo governo Conte (qualcuno ancora sorride, ricordando Luigi Di Maio invocare l’impeachment per Sergio Mattarella, per i suoi interventi sui nomi di qualche ministro sgradito), infine nella giravolta di alleanze del Conte 2, con l’avvio della tormentata convivenza con il Pd. Il terzo Movimento ha visto la luce con la pandemia.
Visibilità e protagonismo del giurista pugliese, molto criticati da una stampa in larga maggioranza ostile, hanno fatto breccia fra i cittadini in quella fase drammatica, stando a quello che i sondaggi di opinione certificavano, e trovato qualche riconoscimento anche a livello europeo, per la battaglia sul debito comune e il piano finanziario di rilancio (il cosiddetto Pnrr, che gli è poi costato il posto in favore del “commissario” Mario Draghi, chiamato a gestirne l’attuazione). Quella del governo Draghi è stata una parentesi, più sofferta che accettata da buona parte degli attivisti e dei parlamentari uscenti: imposta da un Grillo umanamente schiacciato da vicende personali e familiari, subìta da Conte, che osò addirittura opporre un “gran rifiuto” all’offerta della prestigiosa poltrona di ministro degli Esteri, si è chiusa con gli scontri a catena sulla guerra, il caro-energia, il superbonus e l’inceneritore di Roma.
La nuova fase: il riposizionamento
La scissione promossa da Di Maio e la rottura con Draghi hanno aperto una fase di ridefinizione del posizionamento politico del Movimento. C’era pochissimo tempo, ma la campagna elettorale è stata, da questo punto di vista, un successo. Un doppio successo se si pensa che, dopo la rottura col Pd, la scommessa per Conte era tenere in vita il terzo polo reale, opposto al terzo polo virtuale (molto amato da gran parte dell’informazione italiana) creato dalla comunicazione elettorale di Carlo Calenda e Matteo Renzi; mentre per il Nazareno la scommessa era quella di un riassorbimento della ribellione dell’elettorato grazie al classico appello al “voto utile”, con la proiezione di una condanna all’irrilevanza degli ex grillini, in caso di risultato sotto la soglia psicologica del 10%.
Che sia vero o meno quello che sussurra qualche osservatore interno di stretta osservanza contiana, cioè che la rottura del “campo largo” annunciata da Letta per punire i 5 Stelle ribellatisi a Draghi sia stata quasi consensuale, sta di fatto che gli esiti sono stati ben diversi per i due ex partner. Conte ha puntato tutto su un messaggio stringato, ripetitivo, di facile comprensione. No alla guerra, critiche alla Nato e all’Unione europea, enfasi su caro-bollette e crisi economica, difesa dei capisaldi programmatici del Movimento come superbonus, salario minimo e reddito di cittadinanza. Ha funzionato, a prestare orecchio alle malelingue a 5 Stelle, anche perché la regia della comunicazione elettorale è stata sottratta per una volta all’onnipresente e un tempo onnipotente Rocco Casalino e affidata al responsabile web Dario Adamo. Ma forse anche perché l’impacciato professore universitario degli esordi ha lasciato il posto a un esperto comunicatore, capace ormai di reagire con efficacia alle critiche nei talk show, e perfino di reggere tre quarti d’ora di comizio a braccio, come si è visto nella manifestazione elettorale conclusiva del 23 settembre. Manifestazione per la quale Conte e i suoi hanno scelto non casualmente piazza Santi Apostoli, luogo simbolo della stagione politica di Romano Prodi, un altro tassello del riposizionamento del M5S come forza progressista e alternativa al Pd.
Conte evita come la peste di definirsi “di sinistra”, ma rivendica la sua posizione “progressista”; accusa, con qualche buona freccia al suo arco, il Pd di avere rinunciato a competere con la destra, e di fatto di aver consegnato il Paese a Giorgia Meloni, ed è già in vantaggio, avendo sciorinato in questi mesi una piattaforma politica chiaramente di opposizione; mentre chiunque altro ambisca a opporsi al centrodestra dovrà fare i conti con la prudenza e la “moderazione” finora ostentate dalla leader di Fratelli d’Italia. Non sarà facile opporle l’agenda Draghi, anche se naturalmente su diritti civili, e in generale visioni culturali differenti, non mancheranno le occasioni di scontro fra il centrosinistra e i più o meno postfascisti.
Il fronte interno: costruire il “partito”
Con la scissione dimaiana, che ha in qualche modo “pacificato” i conflitti interni e gruppi parlamentari molto ridimensionati dal punto di vista numerico, quindi più governabili, i dirigenti nazionali del Movimento ostentano ottimismo di fronte alla stagione che sta per aprirsi. “Ora dovremo mettere in piedi i coordinamenti regionali, le sedi, la presenza sul territorio”, dicono le voci vicine a Conte. L’ex presidente del Consiglio ha conquistato i suoi, guidandoli a una rimonta che pareva improbabile. Beppe Grillo è rimasto ai margini, non ha neppure mandato il classico messaggio video per la manifestazione di chiusura. Forse è davvero iniziata l’era post-grillina. Ma resta tutta da costruire un’idea di partito, una forma di organizzazione, un progetto politico che, pur partendo senza solidi riferimenti ideologici, vada oltre i quattro o cinque punti fermi di un programma blandamente “progressista”, e dimostri di poter consegnare al passato la stanca retorica anti-casta, che ha prodotto solo una discutibilissima riforma costituzionale e ridotto la rappresentanza democratica in parlamento.