Nascerà a Venezia la primascuola al mondo di arte immersiva. Ce lo rivela l’accordo firmato dal Centro Sperimentale di Cinematografia e dalla Regione Veneto il 5 settembre, mentre al Lido era in mostra uno degli showcase di progetti immersivi più importanti d’Europa. L’obbiettivo è quello di far partire nel 2023 la Csc Immersive Arts, una sede della Scuola nazionale di cinema rivolta ad artisti e tecnici che intendono esplorare il linguaggio e gli strumenti di sviluppo degli ambienti virtuali immersivi e interattivi.
«Per ora abbiamo annunciato un accordo di programma» ci spiegano Jacopo Chessa, direttore della Veneto Film Commission, e Marta Donzelli, presidente della Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia. Li abbiamo raggiunti durante le concitate giornate della Mostra del cinema per capire meglio cosa significhi immaginare un percorso formativo che ha l’ambizione di essere un prototipo a livello internazionale.

J. C. «Si tratta di una sede distaccata del CSC che sarà specializzata nell’immersività e offrirà corsi di durata biennale – spiega Jacopo Chessa. Stiamo lavorando sulla fisionomia della scuola: l’idea è quella di dare una formazione ad artisti oltre che a tecnici, sapendo che sono figure che hanno anche un ampio ventaglio di applicazioni. Sarà per questo una scuola multidisciplinare e internazionale, aperta a studenti di tutto il mondo, circa dodici per classe. Questo polo veneziano sarà fortemente legato alle innovazioni tecnologiche, attento al rapporto con i materiali e al contempo insisterà sulla relazione con gli altri dipartimenti del CSC. Lo faremo a San Servolo dove ha luogo Biennale College VR proprio perché il rapporto con un luogo che accoglie già da tempo le sperimentazioni con le tecnologie immersive ci sembra importante».

Vuoi dire, Jacopo, che non esistono nel mondo scuole dedicate unicamente all’arte immersiva? Dunque non avete un vero e proprio modello…
J. C. «A oggi non esistono formazioni biennali così intensive. Ci sono dei master interni ai dipartimenti di film school e alle accademie d’arte ma sono molto spesso orientate al mondo dell’animazione, al gaming come industria di riferimento. La nostra non sarà una scuola di questo tipo. L’universo dell’immersività ha tante strade e quello che ci interessa di più è proprio immaginare nuovi modelli artistici. Quando mi capita di frequentare le pratiche creative più innovative, gli schowcase dedicati ai progetti immersivi come la stessa Mostra del cinema o i festival dedicati come il NewImages di Parigi, ho la sensazione di esplorare un mondo che non ha ancora i suoi riferimenti, a differenza del cinema tradizionale. Teniamo inoltre presente che è un mondo popolato da giovani e giovanissimi».

Marta come avete accolto il progetto? Servono fondi e la capacità di immaginare un piano formativo solido…
M. D. «Quando Jacopo ci ha presentato una prima bozza di questa idea ci è sembrata subito interessante. Si inscriveva perfettamente in una riflessione che insieme al nuovo cda avevamo iniziato a fare quando siamo stati nominati rispetto alla struttura del CSC e al ruolo delle sedi regionali. L’idea generale è quella di lavorare affinché il CSC sia una scuola diffusa sul territorio, contrastando l’ipotesi di un centro con le varie sedi come satelliti. Con la parte dei fondi del Pnrr dedicati al cinema e destinati alla nostra Fondazione, 28 milioni di euro, abbiamo l’opportunità di fare investimenti importanti nel campo della formazione a partire dal presupposto che il CSC è un centro di alta formazione per le professionalità più creative nell’ambito dell’organizzazione del lavoro nel cinema. Con questo progetto intendiamo, infatti, affrontare le trasformazioni dei linguaggi che utilizzano le immagini e posizionarci in maniera seria e intelligente».

Essere un centro «sperimentale»…
M. D. «Si, una scuola dell’immersività da un lato spinge proprio quella parola molto importante che è nel nostro nome e che credo vada ripescata ogni volta. Lavorare su questo fronte significa immaginare dei contenuti che spostano il nostro punto di vista, le nostre percezioni più in generale. Come si ascolta, come si guarda, cosa sono le immagini e cosa significa lavorare con un linguaggio in evoluzione per raccontare qualcosa…C’è poi anche una parte altrettanto importante della formazione che è quella legata alle nuove professioni e, quindi, alla formazione di nuovi professionisti in grado di utilizzare nuovi strumenti, nuove tecnologie e nuove strategie espressive che possono avere oggi moltissime applicazioni. Questa duplicità interna all’idea stessa del progetto è importante laddove come Scuola ci dobbiamo porre anche il problema del mercato del lavoro. L’uso di queste tecnologie è una frontiera senz’altro in espansione e il nostro progetto è formare persone che sappiano dominare tecnicamente e creativamente lo scenario mediale contemporaneo».

Eppure le figure professionali che stanno dietro all’arte immersiva sono ancora di difficile comprensione per molte persone…
M. D. «Quando abbiamo iniziato a parlarne la mia prima preoccupazione è stata proprio relativa alla creazione di percorsi formativi chiari, con un’identità e un immediato atterraggio professionale, così come è oggi per le professioni del cinema in senso classico.
Intendiamo lavorare in modo integrato con le altre esperienze formative sul territorio italiano. La sede romana può essere utile al polo veneziano e viceversa, riflettere sulle possibilità immersive del suono o delle immagini può avere un grande valore per chi le sperimenta nel cinema. Lavoreremo quindi sulle professioni legate all’ambito dei cosiddetti creative technologist, dei programmatori e, contemporaneamente, sulla dimensione più legata alle strategie narrative ed estetiche che questi media immersivi possono rimodulare».

Quando partirà?
M. D. «In questa fase stiamo lavorando per presentare un piano formativo molto strutturato che speriamo possa partire in autunno 2023. Il metodo migliore per sperimentare una formazione così lunga, però, pensiamo sia quella di attivare in tempi rapidi un numero zero che sperimenti la macchina. Stiamo immaginando di far precedere la prima annualità da una summer school in modo tale da poter iniziare a mettere in pratica le ipotesi dei vari percorsi».
J.C. «È fondamentale testare i materiali e sperimentare gli spazi come i teatri di posa. San Servolo ne ha uno di circa 140 mq. Pensiamo di iniziare con una formazione di due o tre mesi».

Da questo primo accordo che tu Jacopo hai fortemente voluto, cosa dobbiamo aspettarci?
J. C. «Abbiamo costituito un gruppo di lavoro di cui faccio parte insieme alla regista di arte immersiva Sara Tirelli, al gruppo di ricerca dell’Università Statale di Milano An-Icon, a Maria Bonsanti, Renato Pezzella e Daniele Tomasetti del CSC. Ma si uniranno anche altre figure e partnership internazionali con cui produrremo i documenti necessari e il progetto formativo del Csc Immersive Arts. Non avendo un modello da seguire, dobbiamo immaginare tutto. Siamo partiti quindi condividendo la prima e più importante domanda con creators e creative technologist in giro per il mondo: se doveste fare una scuola in cui imparare il vostro lavoro, come la fareste? È un progetto un po’ folle ma bisogna provare».