(…) Quando sono arrivato qui in Giappone, oramai più di 40 anni fa, mi sembrava di essere atterrato su un altro pianeta. Il Giappone era già diventata la seconda economia del mondo, e molti erano convinti che sarebbe presto diventata la prima. Esattamente come ora il mondo si aspetta che succeda con la Cina. Mi sentivo un privilegiato, uno che aveva avuto la fortuna di trovarsi nel posto giusto al momento giusto. E così è stato, in effetti, per i primi anni. Il Giappone era il modello da seguire, e noi giornalisti avevamo il compito di decifrarlo e raccontarlo.

PIÙ PASSA IL TEMPO, più mi rendo conto che questo paese assomiglia, nel male e nel bene, al nostro. Abbiamo in comune una lunga e movimentata storia che spesso amiamo riscrivere, omettendo misfatti e inventandoci trionfi, l’amore per l’arte, per il cibo, la cultura. Condividiamo alcuni valori fondamentali della società, a cominciare dalla famiglia. Anche qui, nel bene e nel male: nepotismo e mafiosità marciano assieme alla solidarietà e alla pietas filiale, e spesso prevalgono.

MA SOPRATTUTTO condividiamo la scarsa qualità – per usare un eufemismo – della classe politica. A parte qualche breve eccezione, siamo due paesi condannati ad essere governati male, da una classe politica ignorante, corrotta, spesso cialtrona e al tempo stesso arrogante. Una classe politica che non ci meritiamo, e che invece di aiutare a far crescere i nostri paesi li ha di fatto danneggiati. Con una differenza, a nostro favore: che noi a volte ci siamo ribellati, e che abbiamo la capacità, in qualche modo, di “arrangiarci”, aggirando e spesso violando le regole. I giapponesi no. Mai una rivoluzione, solo tante, piccole rivolte, durate poco e represse senza pietà dalle autorità di turno. E mentre poco si sa, a livello rigorosamente genealogico, delle origini della casa imperiale, è un fatto che il Giappone ha mantenuto, nei secoli dei secoli, la sua classe politica dominante. Almeno dai primi shogun, i capi militari, che dal XII secolo hanno di fatto governato il paese. «Nessun paese ha sopportato, come hanno fatto i giapponesi, otto secoli di fascismo» scrive, nel suo “Lost Japan”, Alex Kerr. E cita la «rivoluzione-restaurazione» Meiji, quando alla fine dell’800, minacciati dai cannoni del Commodoro Perry e preoccupati di fare la fine della Cina, azzannata, mutilata e umiliata dalle potenze europee, i «samurai» riposero le spade, si tagliarono i codini e si trasferirono in giacca e cravatta a Kasumigaseki, il quartiere dei «palazzi» di Tokyo. Un colpo di stato, non certo la presa della Bastiglia. Da lì, dopo aver guidato la più efficace rincorsa della storia, recuperando in poco più di trent’anni cinque secoli di ritardi, sfidarono e sconfissero (la prima volta, per una potenza «diversamente bianca») la Russia dello Zar per poi avvitarsi in quella che molti ancora oggi chiamano «guerra di liberazione dell’Asia», una guerra di cui, vuoi per convinzione vuoi per dolosa o quanto meno colpevole ignoranza, molti giapponesi si sentono più vittime che colpevoli.

E SONO ANCORA lì. Tranne poche eccezioni – avendo all’epoca esonerato il principale responsabile, l’imperatore – non c’è stata soluzione di continuità nella classe dirigente che aveva guidato prima la «modernizzazione», poi la vittoria contro la Russia ed infine gestito la tragedia della guerra.

Sono passati altri 70 anni, ed il popolo giapponese – anche grazie ad una legge elettorale che premia il voto rurale rispetto a quello urbano – continua ad eleggere una classe politica ignorante e corrotta, che non è stata in grado di migliorare apprezzabilmente le sue condizioni di vita e che ora rischia di coinvolgerli in una nuova guerra per procura.

Gli articoli firmati da Pio d’Emilia nell’archivio storico del manifesto

APPURATA LA MANCATA propensione alla ribellione, ci sarebbe l’altra via. Quella di arrangiarsi. Di modificare, anche sostanzialmente, regole assurde o che stanno strette facendo finta di rispettarle o violandole senza farsene accorgere. Un’arte nella quale noi siamo maestri, ma che i giapponesi non conoscono. Proprio non ce la fanno. La parola d’ordine in Giappone, più che banzai, è mendokusai: evitiamo guai. È un principio, nel bene e nel male, che informa la vita quotidiana di giapponesi, e che va dalle piccole cose, tipo evitare di disturbare, toccare, protestare, farsi notare e quant’altro, all’incapacità di prendere decisioni e spesso anche di fare proposte. In genere si aspetta che sia il «capo» di turno a prenderle. E ci si accoda.

In questo paese si va avanti per forza di inerzia, qualsiasi tentativo di cambiare, interrompendo o anche solo modificando una «tradizione» è destinato a fallire, e chi ci prova paga prezzi altissimi. Specie in politica: è meno grave rubare che innovare.

ATTRAZIONE PER LA modernità e rispetto della tradizione sono due aspetti fondamentali della società giapponese. Una società dove accanto a soluzioni di alta tecnologia, AI (intelligenza artificiale) integrata ma spesso applicata solo a livello di inutili gadget, convivono pratiche obsolete e farraginose. Una per tutte: durante la pandemia, il numero di contagi, i decessi e altri dati come la disponibilità di letti in terapia intensiva venivano inseriti a matita e inviati alle varie autorità via fax.

ESATTAMENTE COME è avvenuto – almeno in alcune regioni – in Italia. E se è vero che a livello privato la digitalizzazione è oramai abbastanza diffusa, a livello pubblico è ancora un miraggio: la burocrazia comunica ancora solo ed esclusivamente via fax, e al posto della firma digitale o di una Pec, che qui ancora non esiste, si chiede ancora l’apposizione dello hanko, il timbro personale che in Giappone sostituisce legalmente la firma. Sono contraddizioni che vissute dal dentro non vengono neanche percepite, ma che osservate da fuori fanno capire perché questo paese non riesce a ripartire.

LA PRESUNTA, miracolosa armonizzazione tra modernità e tradizione, tra passato e futuro di cui per anni ci hanno parlato gli Ezra Vogel e i Van Wolferen – tanto per citare due tra i più noti esegeti della «Giappone spa» – e alla quale abbiamo regolarmente abboccato noi giornalisti (ammetto di esserci caduto anche io, a volte) era fuffa. Il ’MAGLEV’ – il treno ad alta velocità è ancora un prototipo – avrà anche registrato il nuovo record mondiale di velocità, ma il paese viaggia ancora… a vapore. Il Giappone è l’unico paese del G7 che non ha ancora riconosciuto le unioni dello stesso sesso e l’affido congiunto. E che continua a mantenere socchiusa la porta con l’esterno, pronto a sprangarla di nuovo in ogni momento.

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