Jessica è una «straniera», di passaggio a Bogotà per regolare una serie di questioni dopo la morte del marito, la lingua del posto, l’atmosfera, il flusso delle giornate pure famigliari le appaiono all’improvviso «nuovi». In testa le risuona un’eco, non sono però le parole diverse dalle sue di quella realtà da scoprire e che forse la sorprende: questo tonfo muto, che esplode come un boato silenzioso e che soltanto lei sente non ha nome, è qualcosa di misterioso, riguarda la ricerca di sé, il rapporto con quanto ci circonda. Anche Apichatpong Weerasethakul è «straniero» in questo suo nuovo film – presentato lo scorso anno al Festival di Cannes dove ha vinto il premio della giuria, rimasto inedito in Italia, da oggi in sala fino al 5 agosto quindi passerà su Mubi. Con Memoria infatti il regista ha lavorato per la prima volta fuori dalla Thailandia dove ancora vive, a Chiang, nel nord ovest del Paese, una zona in cui – come ama raccontare – il ritmo delle cose è lento e spinge alla contemplazione, lo stesso movimento che attraversa i suoi fotogrammi.

LA SCELTA di ambientarlo altrove è nata un po’ dal desiderio di mettersi alla prova in un contesto diverso, e soprattutto dal fatto che girare in Thailandia è diventato complicato, la giunta militare esercita un forte controllo limitando la libertà di espressione specie per chi come «Joe» – così lo chiamano da sempre – fa film radicalmente politici spingendosi un una dimensione di profondità che interroga il contemporaneo, la storia, e la materia stessa del cinema. Il punto di partenza per lui non è l’attualità della cronaca o quanto è «bene» o «male» secondo il dibattito corrente: le sue immagini spostano il pensiero sul bordo di coscienza e veglia e sull’enigma, l’attesa, le assenze, il desiderio verso dei punti in cui le emozioni, il tempo e lo spazio (del film) si incontrano.
Jessica – a cui dà fisicità stralunata Tilda Swinton, quasi un alter ego dell’autore, e il suono in testa è un’idea che gli viene dalla propria esperienza nei suoi primi giorni in Thailandia – è un’archeologa che per passione coltiva orchidee: quale rapporto c’è – se ne esiste uno – tra questo e la sua sindrome della testa che esplode? Il titolo del film sembra suggerirci qualcosa. Memoria, una materia preziosa con cui Joe tesse le sue trame di immaginari tra i fantasmi e i sogni – o gli incubi – nella giungla della Thailandia, o sottoterra nella natura della Colombia, dove gli archivi del mondo animale e vegetale e umano ci parlano di un tempo sospeso e di una violenza da cui affiora un sentimento attuale. Anche lui come la sua protagonista è un «archeologo» che nelle sue storie sa riportare alla vita, dunque all’oggi, le tracce che sono rimaste nascoste, che si celano nelle parole, nei suoni, nella natura per ricostruire quella «memoria» appunto che esiste fuori dalle narrazioni ufficiali, e che porta in sé altre esperienze, altre violenze tenute fuori campo. «Non volevo fare un film politico sulla Colombia, che non è il mio Paese; non voglio cercare di appropriarmi della memoria degli altri, ma nella violenza che ho percepito lì risuona ciò che sta accadendo in Thailandia» ci diceva Weerasethakul a Cannes.

 

Dove ci porta allora il viaggio interiore di Jessica – che diviene un po’ anche quello del regista? In uno studio di registrazione un giovane ingegnere del suono prova a dare una sequenza a quel suono che lei sente, ma quando lei torna lì per continuare la loro ricerca nessuno ha mai sentito parlare di lui. Sua sorella, che sta mettendo in scena uno spettacolo su una tribù dell’Amazzonia che rifiuta ogni contatto col resto del mondo, si è ammalata. In ospedale Jessica incontra una paleontologa francese (Jeanne Balibar) che sta studiando una antica popolazione preistorica che si praticava la trapanazione del cranio.

SEGNI, suggestioni: cosa cercare, come? Dalla città Jessica si immerge nella foresta, verso il sito archeologico su cui lavora l’amica, e lì ritrova l’ingegnere del suono invecchiato di molti anni che ricorda – come lo Zio Boonmee di «Joe» – le vite precedenti, quelle che si sono (o non si sono) vissute. Non c’è una spiegazione, ci sono suggerimenti tra i quali si possono cogliere un frammento del mondo, della vita, del cinema. Quel flusso in cui si mescolano l’elaborazione di un lutto o l’attesa di un’epifania, lo spaesamento anche in una strana famigliarità che guida i passi della protagonista, e lo sguardo di Joe per cogliere qualcosa che ci sfugge metterlo insieme e restituirlo.