Un governo in pochissime ore, ieri alle dieci al Quirinale per le consultazioni con tutto il centrodestra, il pomeriggio già presidente del Consiglio con la lista dei ministri, stamattina nella pienezza delle funzioni con il giuramento. Ma quella di Giorgia Meloni è stata più un’esibizione di forza che una vera prova di solidità. Ha il record del governo più veloce, ha fatto meglio dell’unico precedente significativo (Berlusconi 2008) nello sciogliere immediatamente la riserva e presentare subito la composizione del governo. Ma ha anche un altro record: quello di aver confuso – versione ufficiale – due ministri, prova che la composizione della lista fino all’ultimo, durante i 75 minuti del colloquio con il presidente Mattarella, è stata parecchio faticosa. E lascerà uno strascico.

Quando, dopo una rapidissima consultazione – in cui ha parlato solo lei mentre Salvini e Berlusconi si sono limitati a confermare che la indicavano come presidente del Consiglio – Giorgia Meloni ha trascinato via dal Quirinale e dalle telecamere gli alleati, innanzitutto Berlusconi, il Quirinale ha lasciato in sospeso lo sviluppo della giornata. Meloni voleva chiudere in giornata senza dover accettare l’incarico con la tradizionale riserva. Anche il presidente della Repubblica insisteva, come ha fatto dall’inizio, per fare presto. Ma l’accordo nella maggioranza ancora non era chiuso. La lista ancora non c’era. Non sui nomi importanti, che il presidente Mattarella già ben conosceva, ma sui dettagli che nascondevano il diavolo.

«Siamo pronti», mentiva Meloni alle undici del mattino, lasciando il Quirinale per continuare il lavoro al telefono, alla camera. Berlusconi era ridotto al silenzio e alle mimiche facciali. Con gli occhi a fessura e il sorriso inerte, il Cavaliere era l’ombra della sua storia, quella che la nuova presidente del Consiglio pure inseguiva. Agguantandola infine, perché quando il Cavaliere nel 2008 presentò il governo direttamente al momento di ricevere l’incarico, senza la riserva, aveva il controllo assoluto della maggioranza, non era passato per le docce scozzesi che lui stesso ha imposto questa settimana agli alleati, ed era salito già due volte da Napolitano al Quirinale per incontri ufficiali nei quali limare la lista.

Meloni, che 14 anni fa in quel governo era, per il Cavaliere, la «ragazza da svezzare», ha emulato l’impresa, con mille difficoltà in più. Il presidente Mattarella è venuto davanti alle telecamere per spiegare la ragione della fretta: «È stato possibile per la chiarezza dell’esito elettorale ed è stato necessario procedere velocemente in considerazione delle condizioni interne e internazionali che esigono un governo nella pienezza dei suoi compiti».

Sergio Mattarella

E’ stato necessario procedere velocemente in considerazione delle condizioni interne e internazionali che esigono un governo nella pienezza dei suoi compiti

L’urgenza delle motivazioni pubbliche si è unita alla fretta delle convenienze private: Meloni non poteva tenere aperta la partita altre 24 ore. Così l’ha chiusa in un pomeriggio, salvaguardando le scelte di fondo già condivise con il Quirinale e provando a far andare in buca i dettagli. Senza riuscirci, come dimostra la necessità di dover scambiare fuori tempo massimo le caselle di Ambiente ed Energia, un ministero di peso che era andato all’unico ministro di strettissima osservanza belrusconiana, Paolo Zangrillo, e Pubblica Amministrazione, ministero meno importante in un primo tempo capitato a Gilberto Pichetto Fratin, forzista anche lui ma di tendenza Draghi. Peccato che Zangrillo avesse già fatto una dichiarazione per spiegare l’importanza del ministero che gli era stato affidato e che subito gli è stato tolto.

Un’altra prova di debolezza nascosta dietro l’esibizione di forza è la necessità di dover ricorrere a ben nove senatori – età media 62 anni – per far andare a posto tutte le caselle. Era proprio quello che in partenza Meloni avrebbe voluto evitare, visto che in questo modo la navigazione del governo si fa più difficoltosa per la maggioranza stretta che c’è a palazzo Madama. Non tanto in aula e nelle votazioni importanti, alle quali i ministri non mancano, ma nel lavoro quotidiano in commissione.

Dove non è riuscita ad arrivare nella scelta degli uomini e delle (poche) donne, Giorgia Meloni è arrivata allora nella scelta dei nomi. Ha cambiato il titolo ai ministeri, dando a tutti quelli che ha riservato per i suoi fedelissimi un’etichetta più nazionalista, sovranista, quasi autarchica, sicuramente di destra.

Il ministero dell’Agicoltura è diventato «alla Sovranità Alimentare», il ministero dello Sviluppo Economico «alle Imprese e al Made in Italy» (con il paradosso di essere così il primo dicastero con un titolo in un’altra lingua), il ministero della Famiglia ha aggiunto l’obiettivo della «Natalità» assieme a quello delle Pari Opportunità, il ministero del Mezzogiorno, anzi del Sud, ha aggiunto la competenza del mare (che notoriamente non bagna Genova né Trieste) e il ministero dell’Istruzione ha aggiunto la competenza al «Merito».

Unico tra i dicasteri con il nome ritoccato a non essere assegnato a Fratelli d’Italia, quest’ultimo è finito però a Giuseppe Valditara, oggi leghista ma in origine anche lui della nidiata finiana di An. Oggi, con Meloni, arrivata al potere.