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Parole ambigue

Marco Dezzi Bardeschi

Fioccano gli appelli per salvare Firenze: proposte di referendum orientativi, ricorrenti critiche  dell’usura dei “caratteri originari” della città. Talvolta si ascoltano lamenti non privi di ipocrisia sulla diminuzione del tasso abitativo del centro antico. Talaltra si prospettano iniziative di un qualche ripristino della vivace Firenze che fu, popolare e aristocratica, ingegnosamente artigiana e fiera dei suoi monumenti perenni. Ho scritto “caratteri originari” e non “identità”, perché questa abusata categoria andrebbe cancellata dal vocabolario corrente per l’illusoria ambiguità che contiene. Identico è ciò che è sempre uguale a se stesso, mentre un organismo urbano non è  la  certificazione di un riconoscimento, un insieme fisso di dati. L’identità degenera facilmente in  un’ideologia preferenziale che mutila l’immagine autentica e molteplice, ignora la mobilità delle presenze, l’intersecarsi degli influssi e il rispecchiarsi delle epoche. Costruisce paradigmi fuori dal fluire del tempo e non riflette la complessità di un tessuto che nei secoli ha subito trasformazioni, accettato sovrapposizioni, relazioni nuove e cambiamenti imprevisti, e proprio per questo è stata città plurale. E tornerà ad esserlo se a Firenze, e altrove, una nuova dinamica territoriale si aprirà ad una dimensione metropolitana alimentata da più poli qualitativamente concepiti, ciascuno dotato di sue funzioni alte e servizi quotidiani , e non subordinati rispetto al cuore magnifico del patrimonio fisico ereditato. Da quando il tema della Grande Firenze si è posto con evidenza? Il filosofo Giacomo  Marramao ha proposto una data e in una bella relazione letta ad un convegno del 27 maggio 2020 (Firenze sarà ancora una città-mondo? , ora in Le città toscane e l’ambiente dopo la pandemia: resilienza o trasformazione Riflessioni in onore di Marco Dezzi Bardeschi, a cura di Gaspare Polizzi, Mimesis, Milano-Udine 2022) la individua nella fervida Firenze post-alluvione 1966 : «Da quel momento ebbi la netta percezione che Firenze era di nuovo diventata, nel cuore degli anni Sessanta, una città-mondo». Non era diventata celebre solo recuperando parte del suo fascino sull’onda emotiva dei soccorsi, ma la sciagura e le necessità che imponeva dettero una scossa. La Firenze “globale” era nata, a suo parere, dalla stagione dell’Umanesimo e del Rinascimento: è l’«intreccio virtuoso di arte, tecnica e scienza a costituire – osservavo in Per un nuovo Rinascimento (Castelvecchi, Roma 2020) – uno dei caratteri luminosi dell’epoca rinascimentale». Insomma l’inflazionata categoria di identità andrà intesa non come radici da preservare, ma come complicato percorso da proseguire cercando di capire le sconvolgenti trasformazioni in atto. Pure il “nuovo Rinascimento” è etichetta da evitare. Perché tirare costantemente in ballo la categoria di Rinascimento quando si è spinti a disegnare e attuare una spazialità a rete, in grado di affrontare svolgimenti tecnologici e modalità di fruizione radicalmente lontani dalla logica accentratrice e gerarchizzante di un dominio estetico (e politico) signorile e assoluto? È doveroso essere realisti. Arginare la banalizzazione consumistica del centro  antico è essenziale, ma non c’è da aspettarsi risultati miracolosi. Oggi sappiamo che le antiveggenti misure protettive che hanno liberato dal traffico le parti più nobili del tessuto urbano non hanno sortito gli effetti sperati. Sono state sacrosante conquiste a metà di un’urbanistica ispirata a canoniche zonizzazioni, hanno confinato gli interventi di edilizia “economia e popolare”  in periferia e favorito le finalità commerciali e speculatrici di prestigio. Chi intraprende una sana lotta per impedire che avanzi ancora questa espropriazione a danno della residenzialità dei cittadini sembra avere in mente la Firenze consacrata e illustre della tradizione. Patetici sono i pianti sul tramonto della fiorentinità: per coglierne l’essenza convoco due intellettuali che hanno penetrato nel profondo l’anima di Firenze. Emilio Cecchi in Fiorentinità  (ora in Fiorentinità e altri saggi, Sansoni, Firenze 1985) scrisse: «È evidente che, con una tale espressione: ‘Fiorentinità’, non si enuncia un principio, non si delinea un concetto compiuto e valido per se stesso, ma si fa un’indicazione di comodo. Si propone una specie di coacervo psicologico. Ci si riferisce, di scorcio, ad un insieme estremamente complesso di condizioni etniche, estetiche, storiche, di lingua, di religione, di costume, di paesaggio; e chi più ne ha più ne metta. Provatevi a fissare e stringere tutto questo dentro il filo di ferro d’un disegno e d’un profilo razionale; e lo vedrete sfuggire da tutte le parti». Il termine va accettato «nella sua approssimazione come un espediente e una abbreviazione discorsiva». E sta ad evocare «la città socratica, puntigliosa come un alveare, nitida come una tavola pitagorica, esatta come uno schedario». Mario Luzi, introducendo Cecchi, aveva fatto notare che da parte di un autore di norma criticato per l’eccesso di finezza da virtuoso elzevirista «non si parlava mai di bellezza e poco anche di armonia». In un suo prezioso opuscolo (Toscanità, Zanetto, Montichiari 1993) il poeta ammonì, allargando lo sguardo alla regione, che «la toscanità è un dato ovvio e innato come quello di ogni altra condizione locale». Per concludere :«I grandi titoli della gloria domestica sono messi da parte: quello che la parola toscanità evoca è piuttosto sobrietà, elementarità: qualcosa di spoglio, di arioso da cominciare e non da celebrare».

                                                                                                                              Roberto Barzanti

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