È di ritorno da una giornata lavorativa nei campi, passata a raccogliere pannocchie nel suo piccolo appezzamento sotto il sole del Messico, che Tacho riceve la lettera. Sua figlia, Rosita, è stata uccisa nella capitale. Al padre il diritto di riportare il corpo nella terra natia. È questo l’incipit di Zapatos rojos (Red shoes), lungometraggio d’esordio del regista messicano Carlos Eichelmann Kaiser, una co-produzione italiana (102 Distribution) presentata nella sezione Orizzonti Extra.
Subito adottiamo il punto di vista di Tacho, un uomo silenzioso, che già a partire dalla sua fisicità intuiamo non ha avuto vita facile. La sua presenza emana un profondo senso di dignità, ed è forse proprio per questo, perché il personaggio non si scompone di fronte al terribile lutto, che lo percepiamo in maniera ancora più forte, come qualcosa di sordo e ineluttabile, un’ingiustizia a cui non si può controbattere.

IL RECUPERO delle spoglie apre ad una duplice dimensione: da un lato, un ricongiungimento che attiene all’ambito del sacro; dall’altro, il suo rovescio: l’ingarbugliata burocrazia necessaria per svolgere la pratica in oggetto. La prima barriera per Tacho risiede nei soldi che servono per affrontare il viaggio. Il don del circondario non ha alcuna intenzione di fargli credito, il contadino finirà per vendere il suo terreno: indietro non si torna.
Accompagnando il protagonista nel lungo spostamento in autobus, Carlos Eichelmann Kaiser ci mostra la meraviglia del paesaggio messicano all’imbrunire, e riesce a farlo senza cedere ad estetismi: la sua è una regia essenziale, al servizio dei personaggi e delle forti emozioni che la storia suscita; la sceneggiatura è firmata insieme a Jofra GG e Adriana Gonzáles Del Valle.

ARRIVATO nella capitale, Tacho è naturalmente un pesce fuor d’acqua. In un’ideale contrasto tra campagna e città, il regista inserisce un tocco kafkiano nel mostrare la vacuità delle regole che bisogna comunque seguire per far parte dell’ambito sociale, prima fra tutte la mascherina, senza la quale non si può accedere ad alcun servizio, ma che poi tutti tengono perennemente abbassata. La pratica per ottenere il corpo di Rosita è più difficile del previsto, ed è in questo contesto che avviene l’incontro che cambia la direzione del film, quello con la giovane Damiana (interpretata da Natalia Solian). La ragazza ha dovuto adattare i propri comportamenti a una realtà difficile e violenta, per difendersi è talvolta insolente, attacca per prima. Eppure tra i due nasce presto un rapporto basato sulla comprensione della reciproca situazione, della reciproca posizione di sfruttati, sofferenti e dimenticati. Damiana è evidentemente un doppio di Rosita, una seconda chance per essere perdonati, o quanto meno ascoltati, su questa terra e non in cielo. Un confronto che porta a una riconsiderazione dello stesso personaggio di Tacho.
Il titolo del film, Scarpe rosse, si riferisce ad un’installazione dell’artista messicana Elina Chauvet, che è stata riprodotta anche al Lido di Venezia prima della proiezione ufficiale. Originariamente concepita nel 2009, consiste in numerose scarpe verniciate di rosso esposte nelle strade, nelle piazze, di fronte i palazzi istituzionali in risposta all’ondata di femminicidi molto forte in quel periodo in Messico. Nell’unica scena in cui vediamo Rosita ancora viva, tiene in grembo proprio un paio di scarpe rosse.

DEFINIRE Red shoes come un lavoro sui femminicidi sarà forse utile a fini promozionali, ma rischia di essere fuorviante. È piuttosto un film sul lutto, profondamente commovente, e giocando un po’ con l’etimologia, è un film che ci fa con-muovere con un personaggio, Tacho, interpretato dal bravissimo Eustacio Ascacio, in grado di veicolare emozioni autentiche nel suo rimanere in piedi di fronte al dolore. Red shoes è poi un film sull’ingiustizia sociale, sulle differenze tra tenori di vita che continuano inascoltate a gridare vendetta. È, infine, un film sul cuore degli esseri umani, su quanto può essere di pietra o, al contrario, farci sentire finalmente accettati.