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29 Gennaio 2023di Marinella Perroni e Brunetto Salvarani
La morte di Joseph Ratzinger il 31 dicembre ha fatto scorrere i classici fiumi d’inchiostro: per lo più inquadrati giornalisticamente in sentenze del tipo «è scomparso il più grande teologo cattolico» oppure «con lui finisce il Novecento della teologia». A riprova del fatto che in Italia si sa ben poco di teologia. I motivi sono tanti e non è questo il luogo per prenderli in esame. Diciamo solo che la retorica intorno al Papa teologo ha avuto una particolare presa sulla nostra stampa perché da noi, diversamente dagli altri Paesi europei, le vicende della teologia contemporanea non sono ancora entrate a fare parte dell’orizzonte culturale né, tantomeno, dello spazio pubblico.
Non che Ratzinger non sia stato un teologo di grande rilievo, naturalmente. Fargli però occupare tutta la scena della teologia cattolica del Novecento è a dir poco riduttivo. Anche perché nel generale e comprensibile omaggio all’illustre defunto è rimasto sotto traccia il suo ruolo cruciale, per oltre un ventennio (dal 1981 al 2005), di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Un organo che, dal tempo in cui si chiamava Sant’Uffizio, si occupa di vigilare sulla correttezza della dottrina cattolica. Ruolo tanto più decisivo in una stagione complessa per la Chiesa cattolica, sempre più in difficoltà nel vecchio continente, fino al punto che il teologo Christoph Theobald si è spinto a parlare di es-culturazione del cristianesimo dal paesaggio sociale europeo, e invece in grande crescita, almeno a giudicare dai numeri e dalle previsioni statistiche, nell’ex Terzo Mondo.
All’epoca, il prefetto Ratzinger non ha fatto sconti: oltre a preti, suore e laici, più di un centinaio di teologi sono finiti sotto la lente d’ingrandimento del suo dicastero e molto spesso sono stati condannati al silenzio. Tra loro, fior di intellettuali come Jacques Dupuis, Leonardo Boff, Tissa Balasurya e Bernard Häring, ma anche teologhe di vaglia come Elisabeth Gössmann o Teresa Berger. Per non parlare di un’intera area teologica, quella Teologia della liberazione fiorita in America Latina e messa a tacere, senza appello, con due documenti ufficiali (nel 1984 e nel 1986). In Brasile le conseguenze di questa imposizione sono state letali per la Chiesa cattolica, che è stata scalzata dal rifiorire di vecchi e nuovi settarismi religiosi. Perché il «prefetto di ferro» vaticano ha messo a tacere tutte queste voci?
Già prima del Vaticano II, ma soprattutto sulla spinta di quel Concilio, molti teologi cattolici, insieme a quelli di altre Chiese, hanno cominciato a intrecciare proficui dialoghi con le diverse culture di tutti i continenti. Eurocentrica, preoccupata della difesa di un cristianesimo che — come lui stesso ha detto più volte — era nato ad Atene e aveva perciò perso la sua radice giudaica per appropriarsi dell’impianto intellettuale greco, ma soprattutto protesa a garantire l’equilibrio concettuale tra fede e ragione, la teologia di Ratzinger apparteneva al passato e dialogava con i fantasmi di un’Europa che non coincideva più né avrebbe mai più potuto coincidere con la cristianità. Invece, il pensiero di tanti teologi della seconda metà del Novecento, anch’esso ben radicato nel passato, era però rivolto verso il futuro. Anche nelle facoltà teologiche cattoliche era cominciata una straordinaria stagione della semina e speriamo di tutto cuore che, una volta usciti dal grande inverno, possa dare i suoi frutti.
Di tutto questo ci siamo resi conto già durante i nostri studi teologici, ma ne abbiamo avuto piena conferma quando, ben prima della morte di Ratzinger, abbiamo pensato di chiedere la collaborazione di venticinque fra i migliori teologi e teologhe italiani contemporanei per costruire insieme un repertorio in grado di rendere ragione della ricchezza e della varietà della teologia cristiana, e non solo di quella cattolica del post-Concilio Vaticano II. Il titolo della raccolta di saggi era già di per sé esplicativo: Guardare alla teologia del futuro. Dalle spalle dei nostri giganti (Claudiana, 2022). A ciascuno dei nostri colleghi abbiamo proposto di scegliere un teologo o una teologa tra quelli scomparsi negli ultimi decenni, di salire, come recita un noto adagio medievale, sulle loro spalle come «sulle spalle di giganti», e di individuare le possibilità che si aprono oggi per le Chiese e per le comunità cristiane di superare l’insignificanza. Perché una teologia senza prospettive è condannata all’afasia e perché solo se entra nel dialogo pubblico delle diverse culture e tra le diverse culture la teologia è in grado di individuare sempre nuove prospettive. «E come mai ciascuno di noi [li] sente parlare nella propria lingua nativa?» (At 2,8) si chiedevano tutti quei giudei che, pur venendo dai tanti Paesi della diaspora, si trovavano a Gerusalemme quando gli apostoli, dopo l’effusione dello Spirito, hanno cominciato ad annunciare il Vangelo. Una teologia gergale, che non sa parlare le diverse lingue native di tutti gli uomini e le donne del mondo, è moneta senza più valore.
Salire sulle spalle dei giganti teologici novecenteschi ha significato raccogliere una memoria effettivamente critica, inclusiva, promettente. Una galleria sorprendente di pensatori e, finalmente, anche pensatrici — da Hans Küng a Raimon Panikkar, da Adriana Zarri a Jean-Marc Ela, da Dorothee Sölle a Paolo De Benedetti — provenienti da tutti i continenti, afferenti a diverse Chiese e legati alle varie discipline teologiche, dalla dogmatica alla Bibbia, dalla storia della Chiesa al dialogo ecumenico e interreligioso, e così via, che ci restituisce una teologia del Novecento tutt’altro che sterile. Spesso, è vero, le loro sono biografie ferite, non di rado brutalmente colpite dal risorgere di una censura ecclesiastica a dir poco anacronistica, se non addirittura innaturale per il Novecento, dal momento che vuole colpire il fatto che le loro ricerche teologiche sono quasi sempre posizionate sul confine di mondi differenti. E invece, secondo l’intuizione di un altro grande teologo contemporaneo, il protestante Paul Tillich, proprio «il confine è il terreno più fecondo per la conoscenza».
Del resto, parlando alla redazione de «La Civiltà Cattolica», nel febbraio 2017, Papa Francesco si esprimeva così: «Senza inquietudine siamo sterili. Se volete abitare ponti e frontiere dovete avere una mente e un cuore inquieti. A volte si confonde la sicurezza della dottrina con il sospetto per la ricerca. Per voi non sia così. I valori e le tradizioni cristiane non sono pezzi rari da chiudere nelle casse di un museo».
Senza nulla togliere alla grandezza di un pensatore che ha cercato di raccogliere nel suo immenso lavoro teologico tutti i frutti della grande tradizione cristiano-cattolica, forse possiamo dire che quanto mancava alla teologia di Ratzinger era quella lungimirante sapienza racchiusa nella singolare esperienza che accompagna la vita del tempio giapponese di Ise. Questo santuario, che si trova in una grande distesa boschiva a sud di Tokyo, è il tempio shintoista simbolicamente più rilevante per la cultura dell’intero Paese: viene distrutto e ricostruito periodicamente ogni vent’anni. Così i giovani giapponesi possono apprendere come si realizza il tempio; poi, dopo vent’anni, possono loro stessi costruire; e, infine, potranno essere loro a spiegare ai ventenni come si fa, in un circolo continuo di rinnovamento. Proprio di questa sapienza, invece, è stata espressione la teologia post-conciliare.
I maestri che ci hanno preceduto non hanno avuto paura di esplorare nuove strade e, in un tempo in cui non è più scontato neppure nei Paesi di antica cristianità, il discorso su Dio ricaverebbe certo un gran beneficio da una teologia non più rinchiusa nelle teche di un museo né, tantomeno, nelle sagrestie, ma capace di muoversi nello spazio pubblico. Anzi, nella molteplicità di spazi pubblici nei quali il dialogo tra i diversi saperi contribuisce a dare vita alla nuova civiltà del terzo millennio.
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