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21 Marzo 2023Togliere ai poveri per dare ai ricchi. E ancora incertezze sulla giustizia internazionale. Ma visto che l’Italia ha avuto una Milano da bere, potrà avere un Ponte sullo Stretto da mangiare
Il Consiglio dei ministri di giovedì 16 marzo, per larghezza di progetti, è stato il primo del governo Meloni. Qualche passo più in là c’è l’attacco alla Costituzione, che comunque, a questo punto, è già sul retro dell’ordine del giorno. Nelle puntate precedenti del governismo di destra, in fondo, si sono visti aggiustamenti, per saldare conti in sospeso con gli elettori di riferimento (le contese del bagnasciuga), o cambi di scena e abiti d’occasione (la legge sul rave, la seduta a Cutro), e poco più.
La controriforma fiscale scarica la spesa pubblica su lavoratori e pensionati. Un progetto ampio: abiura della riforma del 1971 (vedi qui), frutto del centrosinistra poco prima della crisi petrolifera. Si vuole seppellire il modello di tassazione progressiva universale del reddito, già colpito dai prelievi a tasso fisso, prima riservati ai redditi da attività finanziarie, poi, ormai da anni, estesi a quelli immobiliari e ad altri. Tutto con buona pace della Costituzione. La Carta, memore degli antichi, osceni privilegi fiscali dei ceti abbienti, non solo pone il pilastro della capacità contributiva, ma vuole la progressività.
Lo scardinamento del sistema per aliquote a scaglioni favorisce i redditi alti, ovvio. Naturalmente ci sono sempre le scuse: per lo più, l’incentivo all’economia, che poi fa diventare ricchi tutti, e la spinta all’emersione del nero, che a emergere non ci pensa proprio. Diversivi retorici, logori come i film di Ronald Reagan, che con quelle fumisterie, sostenute da gruppi economici e comunicativi, arrivò dal western fino al Campidoglio, e poi truccò i dati sulla disoccupazione (su questo non si tengono mai gli occhi abbastanza aperti). Da noi, il pacchetto si offre col marchio “equità orizzontale”; il sottinteso suggerisce di trattare i redditi alti come quelli bassi.
La penalizzazione fiscale del lavoro è evidente. Si ripresentano, a regime, forme di contrattazione del prelievo tributario che furono per decenni la fungaia tollerata della corruzione spicciola, della bustarella. Il lavoro dipendente è quello più colpito, ma ci sono svantaggi anche per il lavoro autonomo, quello nelle sacche della produzione – specialmente di servizi – dove il lavoratore ha un solo datore travestito da cliente: da un lato, sarà la scarsità di mezzi a togliergli potere contrattuale di fronte al fisco (la corruzione costa); dall’altro, la riduzione di risorse per i servizi pubblici, compresa la sanità, lo metterà di fronte alla sua condizione sociale: quella vera, senza illusioni e senza paracadute.
Vista l’importanza dei servizi nell’economia, c’è un’amara simmetria: il prestatore isolato di servizi privati, spesso effimeri, si fa finta di favorirlo; alla prestazione organizzata di servizi pubblici, che sono indispensabili, si toglie sostegno fingendo di migliorarla. Così, si insiste sull’autonomia differenziata, cioè sull’attacco alle prestazioni sociali, facendola passare per riforma, quando è uno svuotamento delle vere garanzie. Su questo l’informazione e il mondo intellettuale hanno il compito di indicare i problemi reali, di segnalare i trabocchetti, per fare in modo che le prossime cocenti disillusioni siano costruttive di giustizia e uguaglianza, non di demagogia.
Il quadro che ne esce è brutto, specialmente se si aggiunge il peso della tassa occulta su tutti i lavoratori, compresi quelli del “mi metto in proprio” e i nipotini del “piccolo è bello”: l’inflazione. E non servono rimedi del genere ritocchi sull’Iva del pane, che fa risparmiare centesimi. L’antitassa sul macinato sa solo di vecchio e di umorismo nero. È ancora più inquietante la detassazione dei redditi societari reinvestiti, perché il ricordo corre all’operazione di Berlusconi sui beni strumentali, disegnata a suo vantaggio nel 1994, e peggiorata dal governo Dini, alla chetichella, subito dopo. Però non sembra che ci si renda conto bene della posta in gioco: la Cgil, per esempio, doveva scegliere tra conflitto e concertazione; da anni ha scelto la concertazione e, come si è visto al congresso di Rimini, non avrà neanche quella.
Poi c’è il Ponte sullo Stretto, ambizione antica. Abitò già i sogni neroniani dell’era di Craxi, quella di “E la nave va” e della voglia di cambiare l’inno nazionale. Negli anni Novanta si è rivista nella retorica televisiva di Berlusconi, insieme ai discorsi simpaticoni e alle barzellette. Adesso il Pnrr fa gola, e ogni questione sull’impatto ambientale, sulla sicurezza, sull’opportunità del ponte è dimenticata. Del resto, se l’Italia ebbe una Milano da bere, potrà ben avere uno Stretto da mangiare. Però, che assurdità: la norma secondo cui la Repubblica “tutela il paesaggio” è nella Costituzione dal 1948, ed è stata un ottimo punto di riferimento, quando si è voluto; la stessa norma nel 2022 è stata ampliata con una legge costituzionale, e ora dice anche ambiente, biodiversità, ecosistemi, ma sullo Stretto si affacciano le ruspe. Si conferma che il diritto è fatto di persone, non solo di parole. A proposito.
In questo disegno d’insieme c’è anche qualcosa sulla giustizia. Il codice dei crimini internazionali, importante per l’Ucraina, per la Libia e per molto altro, l’Italia non ce l’ha. Però uno scarno comunicato annuncia un disegno di legge governativo, con uno stralcio e strane lacune; sembra che un anno di lavoro, con la Commissione Palazzo e Pocar, e altri gruppi di studio, arrivato in sede politica non sia stato per niente messo a frutto. In più, la decisione di portare il progetto a Londra, alla conferenza dei ministri della giustizia, ha schiacciato il tema sull’Ucraina, col rischio di scelte dubbie anche su quello che succede lì. L’impianto voluto nel 1998, con lo Statuto di Roma sulla Corte penale internazionale, consiglia di fare il meglio, non di andare per stralci e tentativi. Chantal Meloni, che ha fatto parte della Commissione, dichiara a “Repubblica” che siamo di fronte a “un’occasione storica mancata”. Magistratura democratica parla di “opzione di segno chiaramente regressivo” e teme un aumento della giurisdizione militare (sulla questione, vedi qui), che seguirebbe la “pericolosa tendenza, che si è già evidenziata in altri settori del diritto umanitario, della progressiva sottrazione alla giurisdizione ordinaria della tutela dei diritti fondamentali”.
È un’Italia delle disuguaglianze, dell’inefficienza e delle manovre col doppiofondo, quella che esce da questi progetti. Favori ai ricchi, meglio se evasori, tasse ai poveri, problemi irrisolti, fumo negli occhi per tutti.