Cinque anni fa Andrea Camilleri se n’è andato. Ci eravamo abituati alla sua presenza in libreria, alla sua voce roca, al suo parlare lento e ai suoi aneddoti raccontati con un gusto speciale. Ci eravamo abituati alla sua produzione abbondante, varia come quella di Simenon, alternando i Montalbano ad altri libri storici o a cronache stupefacenti. E come Simenon, aveva la mania dell’ordine mentale: tutti i romanzi del commissario erano di 180 pagine di computer, divise in 18 capitoli di 10 pagine ciascuno. «Se il romanzo viene fuori con una pagina in più o in meno, io riscrivo il romanzo, perché vuol dire che c’è qualcosa che non funziona».

Camilleri ricordava che sua madre era sorpresa dall’ordine ossessivo della sua stanza, da bambino. Sono cose che non vanno sottovalutate negli scrittori: la costruzione di cattedrali narrative, l’incasellamento del sapere costruito per una vita, devono avere un sistema efficace di ordine delle materie prime.

Ed è sul sapere costruito per una vita intera che dobbiamo tornare, a proposito di Andrea Camilleri. Ci eravamo abituati soprattutto a quella esplosione nella maturità, che credo avesse dato speranza a molti aspiranti scrittori: si può trovare una vena e una voce unica anche molto tardi nella vita. Lui ha cominciato una costante carriera da scrittore dopo i sessant’anni, e quasi a settanta ha pubblicato il primo romanzo su Montalbano: La forma dell’acqua, del 1994. In quegli anni il suo successo, e la sua produzione, sono esplosi.

Però. Non sto qui a dire (ma mi verrebbe voglia qui di scrivere quel suo «cioè a dire», che usava così tanto e naturalmente, quando raccontava o spiegava) che aveva già pubblicato, poi in qualche modo abbandonato, poi ripreso. Ma insomma, credo che sia arrivato il momento di considerare la vita artistica di Camilleri nel suo insieme, e di abbandonare per sempre questa idea dell’esplosione tardiva. In realtà, come ha spiegato bene lui, il suo è stato «un destino ritardato». Ed è la definizione più precisa e confortante: chi più di lui aveva coscienza che tutto era cominciato molto prima, e soprattutto che ogni segmento della sua vita era servito al suo destino ritardato? Dagli eventi, che poi sono diventati epici, come le due mancate pubblicazioni per la gloriosa rivista Sud di Prunas, La Capria, Ortese, e per il mitico Politecnico di Elio Vittorini; per la stessa ragione: hanno accolto un suo racconto, lui si è entusiasmato, incredulo; e prima del numero dove ci sarebbe stato il suo nome, hanno interrotto le pubblicazioni.

E a proposito del successo degli ultimi anni, quando gliene chiedevano conto, quando gli domandavano cosa provava, allora lui rispondeva: «Nessuna emozione può equivalere a una mattina del 1945 che io vengo in una Roma splendida – avevo mandato delle poesie ad Alba De Cespedes per Mercurio – e in via Veneto, davanti al caffè de Paris, dove c’è l’edicola, vedo che in quel momento l’edicolante appende il numero di maggio di Mercurio. Mi avvicino, miope come sono, e leggo: De Gasperi, Sforza, Nenni, Alvaro, Camilleri. Mi si tagliarono le gambe. Qualcuno mi disse: si sta sentendo male? Mi sedetti e dissi: portatemi un cognac. E ho impiegato due ore ad alzarmi dalla sedia e ad andare a prendere la rivista, temendo un’omonimia».

 

 

C’è una storia più lunga, articolata, recuperabile e che fa giustizia delle energie che Camilleri ha speso per l’intera vita in nome dell’arte. Ed è di un artista e intellettuale moderno, che per caso entra in Rai o che insegna all’Accademia d’arte drammatica, e che scrive, alleva attori, produce le commedie di Eduardo in tv, e i Maigret (appunto), il tenente Sheridan. Che fa regie teatrali, televisive, radiofoniche. Che accompagna la nascita del costume e della cultura popolare italiana da dietro le quinte, e intanto scrive romanzi, raccoglie storie, colleziona rifiuti editoriali o sfortune che adesso possiamo riconsiderare come momenti passeggeri ed epici di quel destino che neanche lui sapeva ritardato, o forse sì, chissà, forse ha saputo semplicemente essere paziente. Una volta, poi, promette a suo padre di riraccontare una storia che gli ha narrato per fargli compagnia durante la sua malattia, e lì capisce che può provare a farlo nel modo meno letterario e più vicino all’oralità possibile. Questo vuol dire riavvicinarsi al dialetto, e a volte reinventarlo, e a quel punto inventare non solo una sintassi ma anche un luogo, Vigàta; ed ecco che il destino ritardato si compie in modo inevitabile, e a quel punto inarrestabile.

Di tutto questo insieme, bisogna tenere conto. E il commissario Montalbano è un buon Virgilio che accompagna l’intero arco della sua vita, visto che, «come ha scoperto mia moglie, Montalbano è al sessanta per cento mio padre. C’è la sua ironia, il senso pratico, la voglia di accomodare, di perseguire la verità senza trasformarsi in rappresentanti dell’Inquisizione. E certi suoi silenzi, un certo coraggio che io non ho».

Abbiamo vissuto quasi venti anni con la cadenza delle uscite di Camilleri, con i suoi libri blu Sellerio e poi anche per altre case editrici. Ma non si possono pensare staccati da tutto il resto, da quell’edicola che esponeva il suo nome a vent’anni, dalla passeggiata con Vittorini dopo aver spento le luci delle stanze del Politecnico, dalla Rai (abitava lì accanto, come se avesse definitivamente deciso che era casa sua), dalle discussioni con Eduardo in cui a parti invertite Andrea difendeva il testo originale, ed Eduardo diceva: in televisione dobbiamo spiegare qualcosa in più.

Il destino di Andrea Camilleri è cominciato subito, solo che a noi ce l’ha mostrato molto tardi. Ma non per questo dobbiamo fare l’errore di staccare lo scrittore di enorme successo da quell’ostinato amante di ogni forma di cultura e di arte. Sono stati un cammino unico, più dritto che tortuoso. Ed è arrivato il momento di considerarlo tutto intero, così com’è stato.

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