Tutto inizia alle 23,40. Sono in via Cellini, un angolo di Torino in cui sono finito per caso, durante un giorno libero felice. Non lavoro, per quel che vale quando sei un giornalista. A metà strada tra me e le case più lontane si alza un coro. Può essere di tutto. Via Cellini si riempie di luci. Ne ho viste di simili al mare, il giorno di Ferragosto. La notte di San Giovanni, il santo patrono della mia città. In altri angoli di Torino come questo, certe notti, ma mai così grandi. Sono fuochi d’artificio. In pochi minuti la curiosità mi spinge ad avvicinarmi.
Sono le 23,43, sono a pochi metri da quelle luci. Riconosco il posto da cui provengono, il circolo Asso di Bastoni. Riconosco la bandiera che sventola sopra la porta d’ingresso: la testuggine di CasaPound. Sono ai bordi della festa: metto il telefono in tasca, osservo, ascolto. «Propongo il pezzo al mio capo domani», penso. L’ho fatto mille volte, mai di fronte a CasaPound. Ma resto. Intorno a me spuntano maglie su cui stagliano slogan nostalgici, discorsi ricolmi di toni duri, qualche sguardo pieno di interrogativi nei miei confronti. Ondeggio tra la folla, senza tuffarmi mai. Sono più di cento. Nessuno si avvicina.
I cori si sono spenti. I militanti scherzano, brindano. Potrebbe essere una festa qualunque, sorvolando sui dettagli. Alle 23,50, però, dentro il circolo qualcuno inizia a maramaldeggiare. Qualcuno alza la voce, si intravedono spostamenti muscolari. Un assaggio di cosa arriverà dopo. Una decina di partecipanti della festa entrano nel locale: li seguo. Un uomo e un ragazzo, potrebbero essere padre e figlio, sono tenuti a distanza da altri presenti, come durante una lite. Il clima è teso. Si scioglie di fronte a un grido: «Tutti fuori per la foto di gruppo».
Esco dal circolo insieme agli altri. I partecipanti iniziano a mettersi in posa, con i postumi del disordine precedente. Il giovane protesta, l’uomo riceve inviti a ragionare: «Il padre del ragazzo, di là, è arrabbiato», gli dice qualcuno. Lentamente, gli oltre cento presenti si schierano sotto la bandiera di CasaPound. Cinque persone attraversano la strada, si fermano sul marciapiede opposto di via Cellini con uno smartphone in mano. Come ultras, indicano alla folla come disporsi. Li seguo, estraggo il mio smartphone, scatto una, due, tre, quattro foto. Sono tutte identiche, ma voglio immortalare la folla.
Mi defilo, giro la fotocamera in verticale, scivolo col pollice dentro verso “video”. Inizio a riprende la folla ancora in posa per la foto, ma alle spalle dei cento presenti iniziano spuntano fiamme verdi, bianche e rosse. Due ragazzi in prima fila mi fissano: lo noterò soltanto dopo. Sono gli stessi che, interrotto il primo video e iniziato un secondo, si avvicinano a me facendo finta di niente. Anche questo lo noterò soltanto dopo. Ho gli occhi fissi dentro lo schermo quando vedo l’immagine oscurarsi. È una mano. Sono le 23,57.
«Oh ‘sti video?». «Sei con noi?». «Cancella le foto». Sento i loro corpi avvicinarsi, toccarmi, la mano che ha afferrato lo schermo non sembra voler mollare la presa. Tutto si fa veloce, anche io. Sposto lo smartphone, arretro, uno dei due urla «Marco! Marco!». Sento la tensione salire, com’è appena accaduto dentro al circolo. Ma questa volta non si ferma. Mi giro, faccio due passi. Sento arrivare un calcio da dietro. Sono a terra. Non sento nessun dolore, non sento niente: anestesia totale. Intorno a me urla irriconoscibili, presenze che si moltiplicano. Mi alzo, ma sono di nuovo a terra. Lo smartphone è volato via, vedo lo schermo illuminato. Mi allungo, lo stringo, intorno a me continuo a percepire colpi che non sento arrivare. Ma arrivano.
L’ultima volta che mi ritrovo in piedi non sono solo. La mia maglietta, strappata, è uno straccio. Avvolto sul braccio che stringe intorno al mio collo. Uno, due, tre. Cinque, sei, sette. Nove. Dieci.
Degli ultimi due secondi ricordo la paura prima della libertà. Quel braccio mi libera, corro via. Mi sento veloce, non lo sono. Ma prima di svoltare in via Pietro Foà, dove ho lasciato la macchina, sento l’eco delle urla arrivare dai balconi: «Lasciatelo andare!». Mi hanno salvato loro. Mi giro soltanto a cinque metri dalla mia auto: non sono seguito. Metto in moto, mi allontano. Passano le ore. Dopo cinque passate al Pronto soccorso all’ospedale Molinette torno a casa.
Il resto della giornata corre via. È piena di domande che di solito faccio io, e di mie risposte che di solito nessuno vuole. L’unica a cui penso, prima di addormentarmi, è questa: «Facevo il mio lavoro». Raccontare ciò che vedo, perché tutti possano vedere.