Bangladeshi Modern Art Starts Its Revolution – From a Basement
27 Gennaio 2025“Che magia Dostoevskij nuovo idolo dei ragazzi”
27 Gennaio 2025
di Alessandro Piperno
Se dopo la mattinata di sci ti veniva voglia di sgranchirti le gambe in centro per l’ultimo acquisto in Cooperativa, lo strudel da Lovat, l’aperitivo al Posta, dovevi essere pronto, quasi a ogni passo, a imbatterti in individui che eri certo di conoscere ma a cui, dato che non ricordavi il nome, rivolgevi saluti tanto generici quanto affettati: «carissimo», «carissima»… Come in un incubo ricorrente, a farla da padrone era la solita compagnia di spettri: la bella della classe, il rampollo aristocratico, il penalista, il chirurgo, il grand commis, il giornalista à la page, per non parlare della nutrita rappresentanza di malversatori alla canna del gas.
All’inizio di dicembre le famiglie romane più abbienti si trasferivano armi e bagagli a Cortina. Per certi versi, si trattava d’una migrazione di massa che, durante le vacanze natalizie, assumeva i tratti spietati della colonizzazione. Benché la cosa non fosse di per sé spiacevole, poteva presentare qualche inconveniente, soprattutto per chi aspirava a prendersi una vacanza dall’ordinario. Per tutti gli altri, la maggior parte, era un modo per non perdere contatto con la realtà. Del resto, se eri lì significava che non avresti voluto essere altrove.
Come aveva scritto qualche anno prima Linuccia Saba a Carlo Levi: «Questa cittadina ha un po’ i vantaggi che aveva (e ha) Roma, senza le noie. Tutti, prima o poi, passano di qua. Non hai la sensazione dell’aria stagnante, gli incontri imprevisti sono facili. È un posto dove in fondo si potrebbe vivere quasi tutto l’anno. Ed è bello scrivere a letto, al mattino, come faccio io, guardando i monti silenziosi che si sbrogliano dalle nuvole, e respirano con piacere».
A sorprendere era l’istinto mimetico e il rigore filologico che induceva i componenti di questa tribù di forestieri a sfoggiare pantaloni alla zuava, bluse di loden guarnite con toppe di daino, abitini sgargianti e folcloristici. Poiché l’animalismo non era ancora in voga, soprattutto in certi ambienti altolocati, gli uomini non avevano alcun ritegno a indossare il montone, e le donne la pelliccia. Per contro, venivano riservate parecchie attenzioni all’outfit canino: non c’era Labrador o Chihuahua al guinzaglio che non sfoggiasse il suo abitino di flanella. A definire il tuo posto in società erano le leggi inflessibili dello snobismo. Il mondo si divideva tra gli habitué che avevano ereditato la casa dai nonni e i parvenu che avendola appena acquistata non vedevano l’ora di inaugurarla; tra chi scendeva al Cristallo o al Miramonti (a quel tempo ancora in auge) e chi doveva contentarsi di un alberghetto in paese o, ancor peggio, della pensione fuori mano. Ciononostante niente era più arduo che distinguere l’eleganza dalla cafonaggine, la consapevolezza dall’arroganza. Come ogni località alla moda, Cortina incarnava una contraddizione difficile da risolvere: una crisi d’identità determinata dalla difficoltà di coniugare lussi, ambizioni mondane, sport alpini, immersione nella natura e vita contemplativa.
A proposito di snobismo, parliamo di un’epoca in cui sciare in un certo modo e non in un altro era ancora questione di stile, un segno di distinzione. Lo sci di fondo e le ciaspole erano roba da vecchi. Gli sci uniti, le curve condotte, il cristiania fornivano a chi ti guardava la prova irrefutabile che ci sapevi fare, che non eri uno sprovveduto, né uno sciatore della domenica. Una destrezza che induceva i più vanitosi ad alcune intollerabili licenze nel vestire. Per un certo periodo ci fu chi amava presentarsi sulle piste con gli stessi capi sfoggiati in città: jeans, Henri Lloyd e coppola. Erano gli stessi damerini che facevano le ore piccole in quei locali che non capivi mai se fossero bar, enoteche, night club, discoteche o tutte queste cose assieme.
Che non fosse l’abitudine a tanta esibita opulenza a illuderti — per dirla con Scott Fitzgerald — che la vita fosse una faccenda romantica! Un’illusione resa ancor più frivola dal registro delle conversazioni. «Non è colpa dei piedi di mio marito se per camminare hanno bisogno di almeno tre fili di cachemire» esclamava la signora adagiata sulla sdraio nel dehor del Camineto. Sulla scorta di Brigitte Bardot, anche alla nostra bella signora impellicciata piaceva venire a Cortina «a non fare niente, a prendere il sole», per dimenticare la tristezza e godersi il paesaggio.
Nei tersi weekend di febbraio niente era delizioso come alzarsi presto e fare colazione di fronte alla finestra. A quell’ora la corona di monti innevati bagnata dal primo sole del mattino esibiva i colori del paradiso: il rosa del cielo, orlato di rame e grigio perla, era così invitante da indurre lo sciatore e il naturalista a non perdere altro tempo. C’era solo l’imbarazzo della scelta: impianti di prim’ordine, piste di ogni colore, boschi, torrenti, laghi, tutto là, a portata di sguardo.
A uno di quei laghi, il più suggestivo forse — il Sorapis, a una decina di chilometri da Cortina — Eugenio Montale ha dedicato una manciata di versi magnifici:
Fu quello il nostro lago, poche spanne d’acqua,
due vite troppo giovani per essere vecchie,
e troppo vecchie per sentirsi giovani.
Scoprimmo allora che cos’è l’età.
Non ha nulla a che fare con il tempo,
[è qualcosa che dice
che ci fa dire siamo qui, è un miracolo
che non si può ripetere. Al confronto
la gioventù è il più vile degl’inganni.
Come spesso avviene nella poesia montaliana, anche in questa lirica il panorama si piega ad altri scopi, ispirando al poeta in dolce compagnia meditazioni di ordine sapienziale. Niente più della gita romantica a un laghetto di montagna può consigliarti di mettere in prospettiva il tempo. La scoperta dell’età, ben lungi dal riguardare gli anni che passano, è favorita dall’immersione nella bellezza del paesaggio, e si configura come l’ennesima presa d’atto che la vita, almeno per gli esseri umani, è un inganno dal sapore beffardo.
Del resto, Montale non è il solo grande scrittore del Novecento ad aver eletto l’incanto di Cortina a mito letterario. Come ricorda Fernanda Pivano, fu un lungo soggiorno ampezzano a fornire a Ernest Hemingway l’opportunità di mettere a punto la sua rivoluzionaria tecnica narrativa. Erano gli anni Venti, l’Italia era stata appena contagiata dal morbo fascista, la hall del Concordia pullulava di gerarchi in orbace. Tutto sembrava fatto in modo per fomentare l’immaginazione virile di Hemingway. Non a caso nella sua raccolta più celebre, i Quarantanove racconti, fa bella mostra di sé Fuori stagione, poche paginette dedicate a Cortina e a uno dei suoi cittadini più rappresentativi e disperati: il Peduzzi. Il titolo del racconto allude a quella parte dell’anno in cui le autorità vietano la pesca, una proibizione che i tre personaggi del racconto non vedono l’ora di trasgredire. «Era un giorno di vento, col sole che sbucava da dietro le nuvole e poi spariva tra spruzzi di pioggia. Un giorno magnifico per pescare le trote». Peduzzi non è certo il tipo da farsi scoraggiare. «Andiamo» disse «porterò io le canne. Che importa se le vedono? Nessuno ci disturberà. Nessuno mi darà dei fastidi, a Cortina. Li conosco, quelli del municipio. Sono simpatico a tutti, in paese. Vendo rane. Che importa se è vietato pescare? Niente. Niente. Nessun problema. Trote grosse così, ve lo dico io. A dozzine».
A Hemingway bastano pochi capoversi per svelare il segreto di una terra così prospera e feconda: trote grosse così, a dozzine. Un miraggio che spingeva un altro grande colosso della letteratura americana, Vladimir Nabokov, a lasciare all’inizio dell’estate l’hotel svizzero in cui si era trasferito per correre a Cortina a caccia di farfalle alpine. Non molti anni dopo, Saul Bellow avrebbe ambientato su quegli stessi prati la scena di uno dei suoi pochi racconti: La sparizione. Il picnic alla buona che il narratore allestisce nel boschetto adiacente all’hotel Cristallo è ricco di richiami all’abbondanza: «Formaggio, pane, carne fredda, sottaceti e vino».
A dispetto di tutto questo ben di dio, Cortina è anche il luogo del silenzio e della solitudine. È così che la ricordava Alberto Moravia che da ragazzo aveva trascorso diversi mesi nel sanatorio di Codivilla per curare un’invalidante tubercolosi ossea: una trauma rievocato in Inverno di malato, il suo racconto più riuscito.
La degenza del giovane Girolamo, vessato dall’anziano Brambilla, falcidiato dalla nostalgia della madre, è caratterizzata da un’inquietudine che la notte e il freddo rendono solo più sconsolata: «Per un poco il ragazzo restò immobile ascoltando avidamente i rumori che giungevano dall’esterno; udì così il tintinnio dei sonagli della slitta che portava via il commesso, allontanarsi nella notte gelata e poi morire affatto, udì anche l’uscio della stanza attigua sbattere, e qualcuno parlare; a questo punto un brivido di freddo, probabilmente originato dalla febbre, percosse il suo corpo; macchinalmente egli si rannicchiò come poteva e tirò fin sopra le orecchie le coltri in disordine».
Non per forza la quiete felpata dei passi alpini genera sentimenti così inquieti e raggelanti. Anzi, in alcuni casi, può essere una panacea agli incessanti orrori della civiltà. È il caso di Goffredo Parise che nella raccolta Accadde a Cortina si lascia andare alle delizie offerte dal panorama innevato: «La bellezza di questa neve è nutrita dal silenzio e dalla luce: una luce fredda e purissima, radente o a picco, senza ombre, dove il blu del cielo si appoggia al candore delle vette e dei manti, e il sole è un disco bianco e rovente come la bocca di un altoforno nell’infinito». Una beatitudine che incoraggia lo scrittore a gettarsi a capofitto in uno spericolato fuoripista: «Allora cominciare a sciare, avendo davanti a sé una lunga discesa immacolata dove nessuno è mai passato, soli, contro il sole, aspirando quel profumo quasi impercettibile che il sole estrae dalla neve, un po’ ozono, un po’ di iodio, ascoltando i suoni interni dei propri muscoli, del respiro, dello sguardo e soprattutto il suono della propria energia in espansione, allora, e solo allora e per pochi istanti, si può dire e ripetere e ricordare: “Sì, sono e sono stato veramente felice di vivere”».
Non so neanche più quanti anni sono trascorsi da quel Natale in cui il mio impegno quotidiano consisteva nell’essere innamorato di una certa ragazza. Dato che la sua famiglia, di origine veneta, trascorreva le vacanze a Cortina, ero certo di trovarla lì. Ciò che non scorderò mai è il senso di ebbrezza che provai la sera in cui giunto da Roma, dopo parecchie ore di macchina, vidi aprirsi di fronte a me la famosa conca in tutto il suo splendore festoso. Le luci la rischiaravano come un presepe.
Fu allora che pensai — proprio come Parise, Buzzati, Rigoni Stern e tanti altri ancora, meno illustri, certo, ma altrettanto motivati — che forse lassù, da qualche parte, con un po’ di fortuna, anche solo per caso, per un attimo o due, avrei trovato la felicità.