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Choc nelle capitali europee: solidarietà al presidente ucraino, ma l’obiettivo è non rompere con l’America
A Washington l’incontro con Zelensky diventa una lite furiosa in diretta tv: niente accordo L’imboscata con Vance, le accuse («non dici mai grazie») e la cacciata dalla Casa Bianca
Urla, offese, prese in giro: non ha precedenti nella storia della diplomazia quello che è avvenuto ieri nello Studio Ovale, dove è andato in onda uno scontro durissimo tra Donald Trump e Volodymyr Zelensky, che si erano incontrati per concludere l’accordo sulle terre rare che avrebbe dovuto rappresentare il primo passo verso la pace tra Ucraina e Russia. Il faccia a faccia, invece, è sfociato in una lite plateale –
col presidente ucraino prima umiliato e poi addirittura cacciato dalla Casa Bianca – e s’è concluso con un nulla di fatto sul fronte della trattativa. Sotto choc le capitali europee: la solidarietà di Von der Leyen e Metsola, le parole di Tajani e il silenzio di Meloni. Domenica l’incontro a Londra sulla difesa europea.
L’IMMAGINE DELL’EX COMICO COMINCIAVA A SGRETOLARSI
Umiliazione che può rivelarsi salvifica per riunificare la nazione che si sfalda
Inviato a Kiev
«Con 107 droni abbattuti su 208, possiamo dire che la notte sia trascorsa meno peggio del previsto». Il soldato che fa i conti degli attacchi notturni, un tempo sarebbe stato pessimista, valutando che solo metà dei lanci sono stati fermati. Ma per sopravvivere alla durata della guerra si impara a guardare il bicchiere mezzo pieno. Anche così ci si prepara ai cangianti umori di Donald Trump, che un giorno dice che è stata tutta colpa di Kiev e quello appresso prolunga le sanzioni contro Mosca. Anche a lui gli ucraini si stanno rassegnando. Il prevedibile effetto del ciclone “The Donald” su un Paese bersagliato è stato quello di ricompattare gran parte della pubblica opinione intorno al presidente Zelensky. Soprattutto dopo l’agguato subito a Washington. Intanto il Parlamento di Kiev gli ha esteso i poteri per un altro anno, con i voti convinti anche dell’opposizione. Il capitolo «legittimità», sollevato dal presidente americano che aveva accusato il leader ucraino d’essere «un dittatore» – salvo poi domandarsi in pubblico se davvero avesse proferito quelle parole – è dunque chiuso. Volodymyr Zelensky è il presidente in carica e di votare se ne parlerà a guerra finita.Le uscite di Trump mettono di cattivo umore chi già non ha molte ragioni per stare allegro. In questi giorni i commentatori ucraini hanno descritto la diplomazia di Washington con parole di solito riservate
al Cremlino. Sui media ucraini appaiono definizioni come «imperialismo mafioso» e proposta di «accordo coloniale».
Volodymyr Landa, economista senior del Centre for Economic Strategy di Kiev, è categorico. «È come se avessimo perso la guerra», dice. Secondo i suoi calcoli le riserve complessive dell’Ucraina valgono 14,8 trilioni di dollari. Includono litio, titanio e uranio, così come carbone, minerali ferrosi e gas da estrarre nelle profondità del Mar Nero. Molti giacimenti non sono stati sviluppati, altri si trovano in aree occupate dalla Russia. I depositi di litio dell’Ucraina, per un valore stimato di circa mezzo milione di tonnellate, sono tra i più grandi d’Europa. Uno dei siti principali si trova a Kruta Balka, vicino al porto meridionale di Berdiansk, occupato fin dall’inizio dell’invasione. Un altro è Shevchenkivskyi, in prima linea nell’oblast orientale di Donetsk, recentemente caduto in mani russe. Tre anni di battaglie senza una sola ora di tregua stanno cambiando il Paese.
Le retate della polizia per il reclutamento forzato desertificano le città non appena si viene a sapere che gli agenti sono in strada a domandare a ogni maschio adulto, anche con le cattive maniere, perché non sia al fronte. Ma c’è un altro volto meno reclamizzato. Negli uffici per l’arruolamento volontario chi arriva di propria sponte ha un’età media molto bassa. In gran parte poco più che maggiorenni. Chiedono quasi sempre d’essere inseriti nei battaglioni dei “duri”, a cominciare dall’Azov, che il governo Zelensky era riuscito a irregimentare diluendo le pulsioni identitarie, ma che adesso è tornato ad essere più di un simbolo della destra radicale.
E a conflitto finito da risorsa militare potrebbe diventare un problema politico. Per le strade dei villaggi più esposti al tiro russo e nella città dove i centri commerciali sono un rifugio dal freddo, gli argomenti sono altri. Ma è quando ci si rivolge agli esponenti della comunità ebraica, che la risposta è invariabilmente la stessa: «Avete notizie di attacchi a ebrei da parte di esponenti della destra Ucraina? Noi, no dice un ebreo polacco-ucraino di Odessa – e anzi diversi tra noi stanno nel battaglione Azov », assicura. Roman Shvartsman, presidente a Odessa dell’associazione degli ebrei di Odessa è un sopravvissuto all’Olocausto, ha scritto una lettera che nel titolo è la sintesi di ogni ragionamento. «Hitler mi voleva uccidere perché sono ebreo. Putin mi vuole uccidere perché sono ucraino». In altri termini, «noi ucraini siamo sotto attacco da parte del nostro grosso vicino da 11 anni. La guerra non dura tre anni, ma da 11», ripete. Insiste: «È una questione di libertà». Mosca non può permettere che ai propri confini ci siano paesi liberi, vale per l’Ucraina, come per la Georgia. Perché libertà significa indipendenza, ed è un virus contagioso.
« La Russia vuole conquistarci e distruggerci come stato autonomo. Siamo bombardati giorno e notte, il nostro sistema energetico è distrutto e la nostra cultura è sotto attacco. C’è vero terrore e uccisioni di civili nei territori occupati dalla Russia. E perché? Perché vogliamo la nostra libertà. Perché – riassume Shvartsman – vogliamo far parte di un’Europa libera, non di una colonia russa».